Juggling Magazine december 2015, n.69 | Page 7

Jug n 69:JUG new 09/12/15 15:24 Pagina 5 tiamo artisti, organizzatori, uffici stampa o social media strategist, di solito ce lo dimentichiamo. I primi a farlo sono gli artisti stessi, quando scrivono sinossi dei loro spettacoli che rispecchiano un personale lavoro di ricerca, ma spesso risultano enigmatiche e autoreferenziali, o parlano ad altri operatori usando un linguaggio che sostanzi il lavoro fatto e la loro professionalità, o cercano di incuriosire con suggestioni legate alla storia raccontata, per poi perdersi nell’aneddotica. Gli ultimi a farlo, risalendo la filiera, sono i responsabili della comunicazione, dallo stagista cui si finisce per assegnare il compito di aggiornare Facebook, all’ufficio stampa incaricato della promozione del festival. Si grida al miracolo se si riesce a farsi inviare in tempo da tutti gli artisti inseriti nella programmazione una foto e un testo relativi al proprio spettacolo, non si osa modificarli per non tradire il loro lavoro, né si potrebbe farlo. Si insegue il direttore artistico sperando possa raccontarci il senso complessivo dell’evento e infine si cerca di rendere il tutto il più possibile omogeneo e ordinato in modo da poter fare un lancio stampa o attivare la campagna social. In cui il sipario è stato abolito, la pista si è aperta alla strada, gli spazi sono diventati inusuali, eccentrici, o addirittura architettonicamente progettati per la messa in visione; in cui il pubblico è diventato partecipante, è stato provocato fisicamente, piuttosto che intellettualmente, in cui lo spettacolo dal vivo ha sperimentato forme comunitarie, o di coinvolgimento nella produzione? In cui è sempre di più spettatore-cliente, libero di scegliere gli spettacoli-prodotti che sono sul mercato? Il problema più grande è che noi siamo, prima di tutto, pubblico, ma quando diven- Il risultato è troppo spesso una comunicazione: • in cui è il pubblico a dover fare lo sforzo di entrare; • che a volte è anche difficile da reperire; • che testimonia una mancata occasione di personal branding; • che non cura l’experience delle arti circensi; • che non educa il pubblico ad un linguaggio; • che non lo coinvolge attivamente; • che non mira a fidelizzarlo; • che non fa storytelling durante la manifestazione; • che raggiunge pubblici centrali/partecipanti, ma fatica ad avvicinare pubblici potenziali/convincibili; • che non si preoccupa di raccogliere dei feedback se non in modo informale; • che talvolta si interrompe bruscamente fino all’anno successivo. Per fortuna il nostro è il migliore degli eventi possibili, non abbiamo problemi di pubblico, le arti circensi stanno vivendo una seconda giovinezza e le persone ritornano anche grazie al passaparola. Ma come si può fare di più? Tutti noi siamo, prima di tutto, pubblico, e quando diventiamo artisti, organizzatori, uffici stampa o social media strategist, dovremmo provare a ricordarcelo. Mettersi in ascolto dell’altra metà del cuore dello spettacolo dal vivo è un’attitudine, una vocazione, una possibilità o meno che ci diamo ogni volta che dobbiamo organizzare il nostro lavoro, ma è soprattutto un modus operandi, un sistema di gestione della propria realtà culturale, una strate