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tiamo artisti, organizzatori, uffici stampa o
social media strategist, di solito ce lo
dimentichiamo. I primi a farlo sono gli artisti stessi, quando scrivono sinossi dei loro
spettacoli che rispecchiano un personale
lavoro di ricerca, ma spesso risultano enigmatiche e autoreferenziali, o parlano ad
altri operatori usando un linguaggio che
sostanzi il lavoro fatto e la loro professionalità, o cercano di incuriosire con suggestioni legate alla storia raccontata, per poi
perdersi nell’aneddotica. Gli ultimi a farlo,
risalendo la filiera, sono i responsabili della
comunicazione, dallo stagista cui si finisce
per assegnare il compito di aggiornare
Facebook, all’ufficio stampa incaricato
della promozione del festival. Si grida al
miracolo se si riesce a farsi inviare in
tempo da tutti gli artisti inseriti nella programmazione una foto e un testo relativi al
proprio spettacolo, non si osa modificarli
per non tradire il loro lavoro, né si potrebbe farlo. Si insegue il direttore artistico
sperando possa raccontarci il senso complessivo dell’evento e infine si cerca di rendere il tutto il più possibile omogeneo e
ordinato in modo da poter fare un lancio
stampa o attivare la campagna social.
In cui il sipario è stato abolito, la pista si è
aperta alla strada, gli spazi sono diventati
inusuali, eccentrici, o addirittura architettonicamente progettati per la messa in
visione; in cui il pubblico è diventato partecipante, è stato provocato fisicamente,
piuttosto che intellettualmente, in cui lo
spettacolo dal vivo ha sperimentato forme
comunitarie, o di coinvolgimento nella
produzione? In cui è sempre di più spettatore-cliente, libero di scegliere gli spettacoli-prodotti che sono sul mercato?
Il problema più grande è che noi siamo,
prima di tutto, pubblico, ma quando diven-
Il risultato è troppo spesso una comunicazione:
• in cui è il pubblico a dover fare lo sforzo
di entrare;
• che a volte è anche difficile da reperire;
• che testimonia una mancata occasione
di personal branding;
• che non cura l’experience delle arti circensi;
• che non educa il pubblico ad un linguaggio;
• che non lo coinvolge attivamente;
• che non mira a fidelizzarlo;
• che non fa storytelling durante la manifestazione;
• che raggiunge pubblici centrali/partecipanti, ma fatica ad avvicinare pubblici
potenziali/convincibili;
• che non si preoccupa di raccogliere dei
feedback se non in modo informale;
•
che talvolta si interrompe bruscamente
fino all’anno successivo.
Per fortuna il nostro è il migliore degli
eventi possibili, non abbiamo problemi di
pubblico, le arti circensi stanno vivendo
una seconda giovinezza e le persone ritornano anche grazie al passaparola. Ma
come si può fare di più?
Tutti noi siamo, prima di tutto, pubblico, e
quando diventiamo artisti, organizzatori,
uffici stampa o social media strategist,
dovremmo provare a ricordarcelo. Mettersi
in ascolto dell’altra metà del cuore dello
spettacolo dal vivo è un’attitudine, una
vocazione, una possibilità o meno che ci
diamo ogni volta che dobbiamo organizzare
il nostro lavoro, ma è soprattutto un modus
operandi, un sistema di gestione della propria realtà culturale, una strate