In nome del rock italiano by Parisi & Romero | Page 14
segue sempre la rockstar che lo ha assunto. E lui era
un autista. Come si deve. Avrebbe rivisto i suoi. Suo
padre, ormai si era fatto vecchio e al telefono, quando
gli raccontava delle sue avventure con il re del rock
made in Italy, gli rispondeva che in America ne
avevano a bizzeffe di re del rock. Che avrebbe
potuto, in quanto suddito, trovarsi un monarca più
vicino a casa. E più vicino ai suoi compleanni con i
lumini ficcati in un pezzo di farina lavorata senza
zucchero, senza glutine, senza liquori.
Senza più molto tempo.
Aveva ragione il suo papà.
E, a proposito di rockstar, suo padre, era del
mestiere. Si era ritirato in pensione non da ragioniere,
chirurgo, falegname, ciabattino o docente. Si era
guadagnato la pensione come roadie. Aveva visto
Woodstock, mica cazzate. Aveva partecipato a mille
concerti, tra figli dei fiori che pisciavano al vento e
cariche della polizia sui ragazzi che urlavano ‘freedom
for all’ – gli stessi che 50 anni dopo, in giacca e
cravatta, costituivano e costituiscono la classe
dirigente, con stipendi mozzafiato, delle generazioni
subentranti –. Qualche volta al telefono suo padre
aveva affrontato il tema:
«Chissà come hanno fatto a cambiare bandiera.
Io ho fatto tutta la vita lo smontatore di palchi. E l’ho
fatto sempre con la stessa convinzione. Ovvero, che
sapevo fare quella cosa e non altro, e la facevo perché
era giusto così. Invece, tutti quegli ex ragazzi votati
alla giustizia e tutt’un tratto, come se fosse arrivata
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