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di Giuseppe Antonio Martino
Briganti e galantuomini, soldati e contadini, edito da Laruffa, l’ultimo lavoro di Valentino Romano, uno dei più autorevoli storici del brigantaggio postunitario italiano, è giunto in libreria quasi inaspettato.
Eravamo in molti ad attendere una monografia sul generale catalano Josep Borges e sul suo tentativo di riconquistare ai Borbone, cercando di sfruttare il brigantaggio, il Regno delle due Sicilie, ma lo studioso pugliese, com’è sua abitudine, tra il serio e il faceto, ha stupito tutti, ancora una volta: ha dato alle stampe questo lavoro che sembra porsi sulla scia di una sua precedente pubblicazione, Nacquero contadini, morirono briganti, ma che a me pare, condito com’è di fine ironia, riesca meglio a coinvolgere il lettore nell’opera di ricostruzione, ammesso che ce ne sia ancora bisogno, dell’amara verità sul processo di unificazione della penisola italiana.
La storiografia ufficiale ha inculcato nelle menti di generazioni la convinzione che, dal 1848 al 1861, dalle alpi allo stretto di Sicilia, si udiva un grido solo “l’indipendenza dell’Italia” e non esistono, purtroppo, cronache, analisi, ricostruzioni critiche ufficiali, capaci di fare luce sulle vicende che hanno portato all’occupazione sabauda del Meridione.
È necessario ricorre a versi rimasti nascosti nei cassetti della scrivania di chi li ha scritti, come nel caso dell’abate Martino da Galatro, o ricercare negli archivi atti di processi intentati contro povera gente o singoli briganti che le autorità del nascente regno unitario non si sono preoccupate di distruggere, forse perché li ritenevano di poco conto ai fini della grande storia che è stata scritta dai vincitori, nascondendo sotto la cenere dei villaggi incendiati le crudeltà e le nefandezze operate senza scrupoli, in nome di una malintesa fratellanza mai realizzata, da un esercito occupante, non dico con la complicità, ma certamente con la connivenza delle gerarchie militari, sempre pronte a giustificare e a occultare prove inconfutabili della barbarie dei tanto “civili” soldati piemontesi.
Forse qualche decennio più tardi, quando a Napoli si cantava Chi ha avuto, ha avuto … Chi ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato, i nostri governanti hanno pensato che l’indottrinamento operato raccontando, nelle scuole di ogni ordine e grado per più di un secolo e mezzo, storielle di eroi garibaldini in camicia e rossa e di altruisti bersaglieri dal cappello piumato avesse dato il suo risultato attribuendo loro il ruolo di liberatori e quello di imbelli traditori ai combattenti borbonici.
Mi vien da pensare che nel XIX secolo proprio quando i Savoia, ergendosi a “civilizzatori”, ci raccontavano la favola di un Sud arretrato e di re Borbone incapaci, riscrivendo a modo loro la storia, negli Stati Uniti, al contrario, dopo la guerra civile, i vincitori innalzavano monumenti ai vinti, per riconoscere il loro eroismo di patrioti, forse avversari, ma certamente degni di essere indicati ai posteri come combattenti degni di onore. Ma da noi si sa … la politica, da sempre menzognera, non è fondata sull’onestà e non tende, come affermava Tommaso d’Aquino, a garantire la pienezza della vita umana, mira bensì all’affermazione di pochi che garantiscono i loro stessi privilegi.
Menomale che in questa nostra dissestata penisola vive anche qualche rompiscatole (così nella postfazione è stato definito Valentino Romano da un altro meridionalista di razza qual è Enzo Di Brango) che di tanto in tanto, documenti alla mano, dimostra che il sud non è stato annesso al regno dei Savoia con la complicità dei meridionali osannanti al libratore, ma che a quegli elargitori di “civiltà”, gran mangiatori di polenta che scendevano dal Nord, che incendiavano interi villaggi e violentavano le donne, si è opposto il popolo “minuto”, come allora si usava dire, considerato del tutto irrilevante, e ammesso che complicità e connivenza ci siano state la borghesia settentrionale, per sostenere l’ideale unitario nel Sud, le ha trovate soltanto in una minoranza di latifondisti meridionali, mentre gran parte della classe borghese restava indifferente, convinta gattopardescamente, allora come ora, che “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi“.
Dopo l’unificazione, infatti, tra riduzione delle spese, imposizione fiscale e pareggio del bilancio fu, come sempre, soltanto la povera gente a essere fortemente penalizzata: la condizione economica peggiorò fino a imporre, a chi non aveva terre al sole, l’unica possibile scelta: “o brigante o emigrante”.
I fatti documentati in questo volume non testimonino singole vicende ma, accostati uno all’altro, diventano un mosaico capace di narrare eroismi, viltà, ferocia, povertà … e Valentino Romano, con la competenza di storico che gli è riconosciuta, pone all’attenzione di tutti anche l’endemico trasformismo della classe politica meridionale, del quale siamo ancor oggi quotidiane vittime e la cui causa, forse, va ricercata proprio nelle violenze e nelle angherie subite dai nostri antenati che hanno visto soffocare nel sangue la volontà di impedire che la loro patria fosse ridotta al ruolo di colonia.