Gli approfondimenti di DanzaSì Mauro Astolfi | Page 4

Quali credi siano i caratteri distinti- vi della Spellbound? Di noi hanno spesso scritto e detto che siamo delle macchine in grado di eseguire calcoli pazzeschi, ma di traslarli in processi armonici, altri che Spellbound era un potente com- puter come in grado di fare migliaia di calcoli al minuto e di ingegneriz- zare il corpo attraverso linee di lavo- ro e accelerazioni contro le leggi della fisica…tutto questo ammetto che mi è sempre piaciuto ma c’è sempre stato dell’altro che non è automatico che possa sempre arriva- re a tutti. Mi ha colpito molto un commento pubblicato in una rivista americana che vedere Spellbound è come “vede- re le particelle degli atomi dove non c’è un punto di riferimento, una follia creativa assolutamente organizzata. Una vita in movimento, un moto per- petuo sofisticatissimo, una sofisticata strutturazione e destrutturazione del corpo e delle sue possibilità”. Amai questa definizione ma anche in que- sto caso alcuni ci descrivevano come delle macchine meravigliose, che di per se non considero perché il nostro lavoro ha sempre poggiato le sue basi su una nostra poetica, sicuramente a volte criptica e non immediata, ma tutto quello che esce dalla sala prove è sempre stato il nostro “gesto d’amo- re” non certo un mero calcolo. Si parla tanto di questo “stile Astolfi” in cosa consiste? In primis è il gusto di una danza non lineare. Ho cercato di portare sul palco tanti livelli visivi, di non avere una sola immagine rappresentata ma uno spazio che appunto contenesse tanti altri spazi che potevano rafforza- re o indebolire volontariamente que- sta o quella immagine…molto diffici- le da spiegare. Nella danza deve succedere subito qualche altra cosa perché la linearità, l’eccesiva geometricità mi annoia, 8 mi addormenta. Per quanto ben ese- guita. Per questo ho iniziato a svi- luppare il gusto per una apparente contorsione organizzata, togliere dal corpo tutto quello che potesse essere immaginato e previsto, ma cercare di generare un insieme di tante piccole sorprese in chi guarda. Anche qui non è detto che ci si possa riuscire sempre, ma di certo è sempre stato uno dei miei elementi preferenziali nella costruzione del movimento. Ho studiato a lungo da spettatore cercando di capire cosa colpiva l’at- tenzione e analizzando quello che facevo sempre con sguardo molto critico. L’occhio umano ha bisogno, per goderne, di immagini non centrali ma laterali, già quasi esterne al campo visivo e la prima regola tea- trale che capii fu questa: tutto quello che inizia e finisce e permane ecces- sivamente al centro permette la distrazione. Puoi avere anche il ballerino miglio- re del mondo ma se ce l’hai fisso in una posizione a eseguire i suoi vir- tuosismi dopo un po’ non lo guardi più. Cercare di generare sul palco- scenico un viaggio che non porti dove si pensa possa portarci, come salire su un treno per non sapere dove e quando si fermerà…mi inte- ressa questo tipo di viaggio, mi inte- ressa molto spesso più il viaggio che il luogo di destinazione. Anche in questo caso mi è veramente molto difficile comunicare a parole. Per questo volevo creare dei livelli multipli sul palcoscenico e nel mio lavoro, c’è sempre stata la sensazio- ne di poter arrivare a creare quasi una quarta dimensione percepibile del corpo umano.. Finalmente questo stile ha un nome e lo dico a voi in anteprima mon- diale. Si chiama “Forma Spellbound” è un sistema, perché appunto questa spinta alla creazio- ne sarà sempre in continuo diveni- re, un’immagine, una definizione di quello che facciamo, del nostro lavoro e il fatto che sia una forma fa capire che in quanto tale può cam- biare, modificarsi, riplasmarsi. Non è un metodo non lo sarà mai. FORMA SPELLBOUND sarà una sensazione dove potersi riconosce- re, un incontro per affinità, un lin- guaggio che continuamente cerca di riscrivere e ridefinire parte della propria grammatica. Un libro dove con il passare del tempo alcune pagine si cancellano ed altre si riscrivono, ma il senso del libro, il significato della storia rimane. Lo “Stile Astolfi” non è una tecnica ma una forma di pensiero applicata al movimento. È una tecnica perché la riconosci nei corpi dei ballerini quando la eseguono, ma non è un metodo che puoi studiare. Chi è inte- ressato al lavoro della compagnia, al mio lavoro di creazione può appunto sperimentare cosa significa FORMA SPELLBOUND nel suo corpo quan- do, cosa succede quando ti muovi in questo modo. Questo tuo linguaggio gestuale è ormai codificato o è ancora in evo- luzione? Assolutamente in evoluzione. Quello che faccio oggi è completamente diverso da quello che facevo qualche anno fa e sarà diverso da quello che farò domani. Cerco di “riscrivermi” per quello che posso, pur avendo uno “stile” ormai riconoscibile ovun- que cerco di guardarmi in continua- zione dall’esterno… fondamental- mente mi stanco in pochissimo tempo di guardare le mie cose. Se fosse per me non esisterebbe reperto- rio, farei ogni anno due produzioni nuove e cancellerei tutto il resto. So che lo storico di una compagnia è importante ma non penso che il movimento possa essere bloccato in un repertorio. La musica sì, ma il movimento è talmente infinito che