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FILE ALLEGATO 1 IL PARADIGMA DELLA “SEMPLICITÀ VOLONTARIA” In tutte le grandi culture, in particolare nelle loro matrici religiose, da San Francesco a Gandhi a Buddha e ai Maestri Zen, troviamo degli espliciti riferimenti e richiami alla scelta della “povertà volontaria”. Oggi il termine povertà “fa paura” ed è carico solo di valenza negativa, ma in realtà esso nasconde almeno tre diversi significati: semplicità, frugalità, indigenza. Come si vede, ancor prima di un esame preciso, solo nella terza accezione il termine povertà assume un significato decisamente negativo. Mentre i grandi Maestri del passato parlavano esplicitamente di “povertà volontaria”, noi ci limitiamo a proporre la scelta della “semplicità volontaria”. Tra i primi a parlarne qui in Occidente fu Richard Gregg, negli anni Trenta, già noto per aver scritto uno dei più significativi studi su Gandhi. Nell’introdurre il tema in questione, Gregg fa un esplicito riferimento alla monumentale opera di Arnold J. Toynbee sulla storia delle civilizzazioni nella quale egli sostiene che “la crescita reale di una civilizzazione non consiste nell’aumento della capacità di dominio sull’ambiente fisico, né in quello sull’ambiente umano (ovvero sulle altre nazioni o civilizzazioni), ma consiste in ciò che si può chiamare “eterealizzazione”: uno sviluppo di relazioni intangibili… Questo processo comporta sia una semplificazione degli apparati della vita sia un trasferimento d’interessi e d’energia dalle cose materiali a quelle di grado più elevato”. Negli anni settanta, Duane Elgin ha condotto un’ampia ricerca sulla “semplicità volontaria” indagando sia le esperienze concrete sia i presupposti culturali e teorici generali, che qui riassumiamo. “La semplicità volontaria è un modo di vivere che permette di sperimentare l’integrazione e l’equilibrio tra gli aspetti interiori ed esteriori 36