Comunion Revista Comunion nº 42 | Page 5

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Riflessioni sul Capitolo Generale del 2013

Dalla Multiculturalita' all’interculturalita'

nella Vita Religiosa

P. Giovanni Savina,

Vicario Generale dell'Ordine

2013

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Questa è la grande sfida, ogni giorno siamo invitati a riprendere il cammino, che si presenta arduo e difficile, però contiamo sulla presenza del Signore in mezzo a noi

Poiché il tema scelto per il prossimo Capitolo Generale 2013 sarà sull’interculturalità, vorrei fare questa riflessione, tentando di collegare l’interculturalità alla “spiritualità di comunione”, che spiegherò più avanti. A mio giudizio e di diversi autori che sviluppano il tema in oggetto, quando si parla di multiculturalità si tende spesso a fare coincidere questo termine con interculturalità, ma si tratta di un’imprecisione, che viene continuamente adottata nell’uso comune. Multiculturale è un termine di tipo descrittivo, un aggettivo, descrive uno stato di fatto, allude alla presenza di diverse culture nello stesso spazio o territorio, ma non riguarda l’eventuale interazione razziale di gruppi o individui: si tratta di un processo statico.

Interculturale invece è un termine che identifica persone che culturalmente differiscono per la loro formazione, che per ognuno di loro rappresenta

sostanzialmente una scelta. La globalizzazione in cui viviamo, implica l’interculturalità intesa nell’accezione di un processo di tipo dinamico, perché presuppone uno scontro e uno scambio, che aggiunge arricchimento e nuove costruzioni semantiche. L’interculturalità molto probabilmente sarà l’unico percorso praticabile per gettare le basi per una pacifica convivenza e tolleranza tra più culture. Interculturale significa porre

l'accento sull’“inter”, sul processo di confronto e di scambio, di cambiamento reciproco e nello stesso tempo, ripropone l’unità e la convivenza democratica.

Natura sociale dell’uomo. Dio, creando l’uomo e la donna, la prima coppia umana, li crea “in relazione” reciproca; l’uno ha bisogno dell’altro per realizzarsi in pienezza. La vocazione alla socialità è scritta nel DNA umano.

Secondo la Rivelazione biblica, Dio si auto-rivela come “Amore -in- Comunione”. Egli, ha impresso nell’uomo e nella donna questa “immagine di comunione”, di esistere per l’altro; per questo l’uomo si realizza soltanto donandosi. E’ proprio vero quello che tante volte abbiamo ascoltato: l’uomo non è un’isola!

Ascoltiamo in proposito l’autorevole voce del Vaticano II, che afferma: “L’uomo “per sua intima natura è un essere sociale, e senza i rapporti con gli altri non

può vivere né esplicare le sue doti!” (GS. 12). E ancora: “La persona umana… di sua natura ha sommamente bisogno di socialità. Poiché la vita sociale non è qualcosa di esterno all’uomo, l’uomo cresce in tutte le sue doti e può rispondere alla sua vocazione attraverso i rapporti con gli altri, i mutui doveri, il colloquio con i fratelli” (GS. 25).

Nessuno di noi può farcela da solo! Tutti abbiamo bisogno l’uno

dell’altro. Porre l’accento sulla socialità, come costitutiva dell’essere umano, mi sembra, particolarmente oggi, molto importante. Infatti, tra le lacune che si segnalano nelle comunità religiose vi è al primo posto proprio l’individualismo, il culto dell’ego, l’affermazione di questa cultura su quella della “civilizzazione dell’amore” e della comunione.

Questo progetto scaturito dall’amore eterno di Dio, è stato offuscato dal peccato della prima coppia umana impedendo loro “di conseguire la propria pienezza” (GS 13); poiché l’uomo e la donna hanno voluto realizzarsi autonomamente da Dio, abusando della libertà. Tutto ciò ha causato una profonda ferita e un’incrinatura nei rapporti con il loro Creatore, nel loro intimo, con il prossimo e con la stessa natura. Tuttavia, il peccato non è riuscito ad affogare o distruggere il piano di Dio, che, nella sua infinita bontà e misericordia (Ef 2,4) vuole introdurre tutti gli uomini nella sua amicizia, come figli, “perché forte come la morte è l’amore… le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo” (Ct 8,6.7).

Vorrei segnalare sinteticamente alcuni elementi in cui si riconosce la comunità interculturale:

1. Riconoscimento delle diverse culture, capaci di interagire per arricchirsi reciprocamente, dando visibilità a tutte; non ci deve essere quella dominante che assorba tutte le altre minoritarie.

2.Rispetto delle differenze, non livellamento, promovendo quelle minoritarie, scommettendo sulla “convivialità delle differenze”.

3.Creare un clima di arricchimento reciproco, promovendo una sana interazione.

4.Ci vuole una scelta di campo radicale: mettere al centro la comunione, come “signum Trinitatis”, dove ogni persona è vista come dono di Dio da accogliere, amare e rispettare. In questo senso io collego l’interculturalità a ciò che Giovanni Paolo II, alla fine del Giubileo del 2000, chiamò: spiritualità di comunione, cioè: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti al terzo millennio, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo.

Che cosa significa questo in concreto? Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità. Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto.

P. Giovanni M. Savinna