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ideali della Chiesa che, dopo il crollo del Regno d’Italia, divennero un punto di riferimento per molti giovani e per molte donne, più che altro, tanto che si iscrissero alle associazioni come l’Azione Cattolica e le ACLI per solidarizzare con la nascente Democrazia Cristiana. Bisognava, a tutti i costi, rimettere in moto questo Paese.
Andria, per di più in quegli anni, ebbe la presenza della nobile figura di monsignor Giuseppe Di Donna che, sempre in prima linea per aiutare i più indifesi, istituì nel 1943 “l’Opera dei Ritiri di Perseveranza”, in cui si tenevano incontri mensili affidati alle prediche dei Padri Gesuiti; omelie molto seguite dai giovani e dalle donne andriesi. Ma dal giugno del 1945 si registrarono una recrudescenza di scontri a fuoco che aggravarono i rapporti tra la classe dei braccianti – la maggior parte iscritta alla lega o al partito comunista – e le istituzioni pubbliche e religiose e i proprietari terrieri. Nonostante i buoni propositi delle associazioni religiose, Andria divenne la roccaforte rossa d’Italia. Nel 1946, proprio nelle prime giornate di marzo, quando gli scontri divennero sempre più accesi, le tre sorelle, ormai anziane e fiduciose della loro preghiera, rifiutarono di lasciare la loro dimora in piazza Municipio e seguire i loro parenti in luoghi più sicuri. Si sentivano, nonostante tutto, tranquille in quanto non solo avevano elargito la somma di cinquecento mila lire ai Salesiani per acquistare un terreno e costruire un oratorio, ancor oggi in vita, chiamato “Don Bosco” che, con la sua costruzione avrebbero trovato lavoro tanti disoccupati andriesi ma, più che altro erano certe che a donne vecchie e sole come loro nessuno avrebbe mai potuto far del male.
Ma il destino era segnato. Già dal 6 marzo alcuni individui si presentarono al loro palazzo in piazza Municipio per rovistare i loro appartamenti e quello del loro inquilino Francesco Ciriello, direttore della Banca d’Andria, in cerca di armi e persone. Era il segnale che qualcuno aveva sparso dicerie nei loro riguardi. Il pomeriggio, del giorno dopo, il fatidico 7 marzo, invece, si venne a sapere che l’onorevole Giuseppe Di Vittorio, segretario della confederazione generale del lavoro, doveva tenere un comizio proprio nei pressi della loro abitazione per invitare i contadini andriesi a tenere la calma.
Luisa, Stefania, Carolina e Vincenzina pur intimorite per l’ennesimo comizio che, visto l’evolversi della situazione incandescente di una buona parte dei braccianti andriesi e, più che altro, per l’oscura e misteriosa visita dei cinquanta contestatori del pomeriggio precedente che cercavano armi che mai loro avrebbero potuto possedere, presero le due valigie che avevano preparato con i loro beni più cari e scesero al piano terra per dedicarsi, con i Ciriello, i portinai e la domestica, nella guardiola del loro palazzo, alla recita di un rosario.
Erano passate da qualche minuto le ore 20 quando, ad un tratto, un colpo d’arma da fuoco tuonò nelle tempie della scioccata folla e della compagnia che pregava in portineria. Da quel momento al grido “hanno sparato dal palazzo delle sorelle Porro”, iniziò il macabro eccidio. Francesco Ciriello, Stefania e Vincenzina Porro, nonostante le violenze scamparono la morte, invece, per Luisa e Carolina non ci fu nulla da fare. Furono afferrate in via San Mauro e spinte attraverso l’androne del loro palazzo prima in piazza Municipio e poi trascinate per i capelli in via Bovio: “ammazzatele, ammazzatele che hanno le bombe nel petto” gridavano i rivoltosi con veemenza. Uno di loro con una gruccia le colpiva senza ritegno e pietà. Carolina fu uccisa da un esagitato con un colpo di baionetta allo stomaco e pestata a sangue ripetutamente sul viso dai tacchi delle scarpe di una donna e Luisa, invece, dopo aver “benedetto” il suo carnefice mentre con la sua mano esile si liberava gli occhi dai capelli imbrattati di sangue, fu mandata a sbattere, con un violento spintone, tra ingiurie indicibili, contro lo spigolo della porta attigua all’armeria Giannotti.
I corpi delle due sorelle Porro giacquero nel fango per tutta la notte, osservati a vista dai cinici agitatori, impedendo qualsiasi soccorso. Al mattino dell’8 marzo – giornata che oggi è dedicata alla festa delle donne – girava voce che i due dilaniati cadaveri sarebbero stati trascinati per le vie della città. Intervenne, finalmente, la forza pubblica su sollecitazione del vescovo Di Donna e i cadaveri, finalmente, vennero prelevati e trasportati al cimitero, tra un fragoroso e inaspettato applauso liberatorio.
Alle ore 11, una piazza Municipio gremita da uomini e donne di tutte le età, ascoltava il provato onorevole Giuseppe Di Vittorio il quale con toni fermi e chiari prometteva che il lavoro molto presto sarebbe arrivato e che, in ogni caso, l’ordine pubblico doveva assolutamente ritornare sovrano.
La scrittrice Ada Negretti – una donna che ben conosceva i tormenti dell’animo delle donne del Sud –, nel 1948, durante le fasi più tumultuose del processo, così ricordava le due sorelle Porro:«in chiesa venivano additate con reverenza e rispetto quando snocciolavano compostamente i rosari sul nero dei loro vestiti. È tutto lindo e accurato in queste donne. La rigida educazione ricevuta da genitori esemplari ha messo nelle figlie il senso preciso della signorilità senza, ostentazioni, della grazia senza chiasso, del contegno misurato ma senza rigidezza: mai un eccesso. E tanto rispetto dei simili, tanta comprensione per le loro pene, pei dolori, per le miserie, per gli affamati, pei derelitti».
Riccardo Riccardi