un dettaglio che ha richiamato l’attenzione sulla vita dei nostri fratelli di Alcázar, è stato che fra Stefano, fratello cooperatore, distribuiva, tutti i giorni nella portineria del convento, il pasto ai più poveri del paese; non si cucinava “in modo diverso” per i frati e i poveri, ma condividevano lo stesso pasto.
La persecuzione religiosa, latente in Spagna dal 1931, si esternò nella seconda metà del mese di luglio del 1936, in coincidenza con l’inizio della Guerra Civile. Si è trattato di una persecuzione aperta, di una crudeltà che ammette pochi paragoni, diretta ad eliminare fisicamente il clero e i cattolici più illustri, a sopprimere ogni segno religioso della vita pubblica e privata dei frati.
Nella mattina del 21 luglio 1936, il convento della Santissima Trinità fu circondato da milizie armate; i religiosi furono riuniti nella piazza del convento, P. Placido, che era andato a celebrare la messa nell’Ospizio per anziani, fu arrestato mentre tornava al convento, le milizie lo portarono in catene, puntandogli i fucili, mentre camminava con le braccia incrociate. Una volta raggruppati tutti e sei i frati, furono condotti nell’edificio del Comune, dove si unirono a sette frati della comunità francescana di Alcázar e un giovane novizio domenicano del convento di Almagro, che era stato arrestato alla stazione ferroviaria. Tutti i frati furono condotti nel rifugio minicipale per vagabondi che si trovava vicino alla parrocchia di Santa Maria. Fra Stefano si ammalò gravemente e, il 23, fu spostato all’Ospizio di Alcázar.
I cinque sacerdoti trinitari, i sette frati francescani e il novizio domenicano, rimasero reclusi nel detto rifugio fino alla notte del 26-27 luglio. Poco dopo la mezzanotte li svegliarono e li fecero alzare, assicurando loro che sarebbero stati spostati in un’altra prigione. Presi in due gruppi, furono portati in un luogo chiamato “Los Sitios”, fuori dal paese, e lì furono fucilati. Conosciamo molto bene i dettagli del martirio, specialmente perché uno dei religiosi francescani, fra Isidoro, sopravvisse e potè raccontare dopo, tutto ciò che successe quella notte. I corpi dei religiosi furono sepolti nel Cimitero municipale di Alcázar de San Juan; nel 1962 furono esumati e traslati alle chiese conventuali dei francescani e trinitari, dove riposano da allora.
Per quanto riguarda fra Stefano di San Giuseppe, rimase all’Ospizio fino al 1 settembre, data in cui fu condotto in Carcere. Lì fu sottoposto a pesanti torture; la sua sofferenza morale fu così grande che la sua barba scura cambiò in grigia in pochi giorni, fenomeno che si osservò durante la prigionia di San Tommaso Moro, e che ha meritato l’attenzione della Congregazione per le Cause dei Santi. Patì il martirio il 12 settembre; ci sono due versioni diverse sul luogo della sua morte, ma si concorda che morì per degli spari. Le notizie più fedeli, indicano che il suo corpo fu gettato all’ingresso di una miniera abbandonata, nella circoscrizione di Camuñas (Toledo).
Vogliamo chiamare brevemente l’attenzione su tre aspetti che conviene considerare circa questi sei Beati trinitari: il loro amore per Cristo, la testimonianza dell’amore fraterno e la sofferenza per la fede.
I nostri Beati martiri si consacrano alla Santissima Trinità completamente mediante la loro professione solenne. Si, tutti noi religiosi recitiamo nella formula di professione, le parole “fino alla morte”, indicando con ciò la perpetuità dei nostri voti, nel caso dei Martiri, queste parole assumono, col martirio, un significato nuovo: fino a dare la vita. Non vi è dubbio che i nostri fratelli furono assassinati esclusivamente perché erano religiosi; hanno dato la propria vita come risposta d’amore per Cristo, confessando così come San Paolo, che Gesù il Signore “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20). Il tempo della persecuzione e della prigionia, è stata un’impressionante testimonianza dell’unione col Signore: trascorsero quei giorni pregando, a volte in silenzio, a volte musicando le loro preghiere, coralmente o a voce bassa, confessandosi a vicenda. Nell’ora suprema, alcuni di loro (specialmente il beato Francesco di San Lorenzo), gridarono con forza ed entusiasmo la lode dei martiri: “Viva Cristo Re!”, con cui attestarono e diedero il senso più pieno all’atto del martirio, confessando il loro amore, completo e incondizionato, al Signore.
Il secondo aspetto è l’eroico amore fraterno dei nostri fratelli Martiri. Almeno tre di loro potevano eludere la morte: P. Placido al quale furono offerte delle alte cariche che gli spettavano per la sua preparazione accadamica; il giovane P. Antonio, che ricevette la visita dei suoi genitori che volevano portarlo a Bilbao e fra Stefano, al quale fu offerto il lavoro di cuoco dei miliziani. Ma i tre rifiutarono queste possibilità, dichiarando che volevano correre la stessa sorte dei loro fratelli. Noi religiosi trinitari non possiamo smettere di confessare che la vita fraterna in comunità fa parte essenziale e irrinunciabile della nostra congregazione. La testimonianza comunitaria dei nostri Beati Martiri, certamente eroica ed emozionante, ci deve spingere verso una scommessa decisa per una continua conversione verso una vita fraterna più autentica e di maggior qualità, sapendo che questa è una vocazione nella Chiesa. In oltre, l’unione nel martirio dei nostri fratelli con i figli di San Francesco e San Domenico, ci deve far riflettere sulla chiamata verso la “cultura intercongregazionale” che ci ha fatto l’ultimo Capitolo Generale, sapendo che questa comunione tra diversi istituti per dare testimonianza della “comunione trinitaria”, è una missione specialmente preziosa e degna del nostro tempo.