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CITY LIFE MAGAZINE N.15
Attualmente il panorama italiano in materia
di limiti di velocità, stabilito dal Codice
della strada ed espresso nell’articolo 142,
comma 1, è il seguente: sulle autostrade
vige il limite di 130 km orari (che diventano
110 in caso di maltempo), è di 110 km orari,
invece, sulle strade extraurbane principali
(con la riduzione a 90 km orari, sempre in
caso di condizioni climatiche sfavorevoli).
Sulle strade extraurbane secondarie e locali
bisogna attenersi al limite dei 90 km orari
mentre in città il limite è fissato a 50 km
orari (con alcune eccezioni, espressamente
segnalate, in cui consentito spingersi a 70
km all’ora).
Fin qui tutto bene, i limiti di velocità sono
importanti e, se atti a tutelare la nostra
sicurezza quando viaggiamo in auto, un
prezioso alleato per tutti. Il problema,
però, emerge nel momento in cui vengono
imposti in zone dove non sussiste una reale
necessità e si inseguono, spesso a distanza
ravvicinata, obbligando ad accelerare e
decelerare (c’è una sanzione per chi non
lo fa, grazie all’ausilio del fin troppo noto
autovelox) nello spazio anche di appena
30 metri causando code, rallentamenti e,
nei casi peggiori tamponamenti e incidenti.
Allora viene da domandarsi – e a ragione
– se invece, più che essere volte alla tutela
della persona e prevenire incidenti, queste
restrizioni non vengano imposte per “fare
cassa” o per deresponsabilizzare l’ente
preposto per quel tratto stradale sul quale
sono posizionati i cartelli. Questo dubbio
è alimentato dal contenuto dello stesso
articolo 142 che, al comma 2, stabilisce
che “gli enti proprietari della strada possono
modificare, nel proprio tratto di competenza,
i limiti sopracitati segnalandolo con l’ausilio
di cartelli” (esatto, altri cartelli).
Quindi, appurato che le strade nascono
percorribili ad una ve