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N. 3 - Keith Haring
Crack is wack/ Don't believe the hype
Keith Haring e la musica
di Virginia Monteverdi
«Un giorno mi accadde una cosa decisamente insignificante. Mentre percorrevo la strada per raggiungere un McDonald locale, guardai in terra e vidi un piccolo pezzetto di carta con su scritto GOD IS A DOG, e sul retro JESUS IS A MONKEY. Non so perché ma rimasi colpito da quella frase. Era un’attitudine diversa, una sorta di cosa Punk e New Wave a cui gradualmente mi stavo esponendo in quel periodo, ma che sinceramente ancora non riuscivo a capire totalmente. Era il 1977 e il punk era già arrivato dall’Inghilterra. Io però mi sentivo molto meno fico dei miei colleghi, loro ascoltavano musica più attuale, più “alla moda”, erano molto funky. Decisi così di iniziare a familiarizzare con quella nuova mentalità, quel foglio di carta fu un segno. Per prima cosa mi tagliai i capelli da lunghi a molto corti. Poi iniziai a frequentare i negozi di dischi: comprai un album dei DEVO che andava alla grande, Q: Are we not men? A: we are Devo! Iniziai a frequentare i miei colleghi di colore e con loro ascoltavo black music, funk e punk. Mi ricordo un pezzo che passavano spesso alla radio in quel periodo, Flashlight, era una gran canzone, un nuovo funk».
(Keith Haring in Keith Haring, The Authorized Biography di John Gruen)
Keith Haring durante la sua carriera ha avuto un rapporto diretto con la musica che ha sin dall’inizio influenzato le sue opere e offerto materiale su cui lavorare. Haring era un bianco che alle spalle aveva ancora il retaggio della cultura hippie, studente all’accademia d’arte di Pittsburgh nel 1977 che improvvisamente si ritrovò coinvolto in un nuovo magma sociale della cultura gay e afroamericana. Sebbene nominato come Graffiti artist, Keith non fu mai direttamente all’interno del movimento e nemmeno coinvolto nella compagine di strada hip-hop dell’epoca, da cui si allontanò dopo pochi anni per entrare nell’Olimpo dell’arte.
L’artista iniziò la sua carriera con un’attitudine da “graffittaro” e partecipò in seguito a creare un’identità artistica molto forte alla scena hip-hop, dando così una voce grafica a tutte quelle nuove istanze culturali e musicali che si stavano facendo sempre più evidenti. Haring d’altra parte voleva un’arte che parlasse ai più e che non fosse elitaria, un’arte del popolo e delle minoranze a cui lui stesso si sentiva di appartenere. La sua arte aveva in nuce già una vocazione popular nell’accezione più diffusa del termine ma iniziò a farsi strada nell’underground.
La black music e il nascente hip-hop denunciavano un sistema sociale e politico oppressivo, razzista e consumista, e Haring con la filosofia delle Subway Drawings dei primi anni 80, riuscì a trovare un punto in comune con tale movimento. Queste opere (per lo più graffiti illegali che imponevano all’artista di non farsi scoprire dalle autorità) erano costituite da una linea continua in gesso banco che percorreva numerose gallerie della metropolitana partendo dagli spazi pubblicitari vuoti, come una sorta di filo, di rete, che unificava tutto, come per dire con un atto politico “the medium is the message”, la comunità nascosta esiste.