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classici, vale a dire la poesia come atlante di tutte le conoscenze umane apprese fino a quel momento. Così accade che la letteratura si mescoli all’antropologia, che le scienze si uniscano alla storia e la musica si sposi appassionatamente con la geografia. Ne consegue che Leopardi si presenta non solo come una personalità geniale e multidisciplinare ma soprattutto come un’anima duttile, flessibile, capace di comprende che l’esistente è frutto di un nucleo originario e che niente è distante dall’altro: tutto ciò che esiste fa parte di un disegno straordinariamente ampio per cui ogni metodo che l’uomo possiede per leggerlo in parte deve essere utilizzato.
Eppure è vero che quando si tratta di Leopardi ci si dimentica troppo spesso del suo essere fortemente “enciclopedico”, non solo per la vasta quantità di nozioni apprese e portate sin nella tomba ma anche per la capacità che il poeta sempre presenta di provare interesse per attività umane che paiono distanti solo a un occhio superficiale. Se consideriamo questo aspetto, non ci si può certo stupire che Leopardi si affezioni già giovanissimo – a sei anni – alla scienza, primo gradino nella scala della comprensione della natura. Contrario all’astrologia, all’ignoranza e al bigottismo provinciale e ignorante, Leopardi fa professione di fede nella scienza che più di tutte è poesia dell’universo, l’astronomia. «La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze – così lui dice, quasi con affetto – è l’inizio e la fine dello scibile umano, uno strumento deputato per rendere sempre più labile il confine che separa l’uomo dal cielo; se la geografia terrestre è necessaria per comprendere dove si poggiano i piedi, se l’antropologia è utile alla scoperta delle tradizioni e della storia dei pensieri umani, se la chimica è il linguaggio muto di tutte le cose, l’astronomia è la poesia che si manifesta fisicamente, la disciplina per cui «l’uomo s’innalza al di sopra di essa come al di sopra di se medesimo».
Il giovane Leopardi, che durante gli anni giovanili dello «studio matto e disperatissimo» impara da autodidatta il greco, poi l’ebraico, traduce i classici e viene a conoscenza della musica, non pone alcuna distanza fra Omero e Newton, fra Tasso e Galileo: la sua Storia della astronomia non è lontana dall’essere un compendio, un’antologia di testi di classici: pur sempre di classici si parla, ma di quelli del cielo. E il quindicenne recanatese, imbevuto di cultura illuminista e allergico alle credenze popolari, reputa sinceramente le scienze, e dunque la conoscenza vera e tangibile della natura, necessarie allo sviluppo umano. Lo spazio, nell’accezione più ampia del termine, è il libro dello scienziato, mentre la pagina è il laboratorio del poeta; la poesia diventa scienza verificabile, la scienza diventa poesia dell’animo. Non esiste una distanza di verità e di attendibilità fra le due discipline, e Leopardi lo sa bene: si scrive con l’astrolabio o con la penna e il poeta non vede, fra tali strumenti, alcuna differenza.