TRAKS MAGAZINE TRAKS MAGAZINE 027 | Page 18

rie di passione e di libertà. Tutti i brani del disco sono nati “on the road”. Quali sono le qua- lità che acquistano i tuoi brani quando nascono in viaggio? La spontaneità. L’imprinting dato dalla prima parola o accordo re- siste a tutto: agli arrangiamenti, agli strumenti aggiunti, alle ore in sala prove e ai concerti. Ogni canzone se la spogli dalle sezioni fiati, organi, ritmica, chitarre, cori, tastiere arriva al suo stato primor- diale di appunti di parole e accor- di. Sono state scritte dappertutto: su una panchina, su un divano, in una camera d’albergo, in mac- china, davanti a un caffè o all’ul- tima birra. Anche i luoghi dove sono nate hanno influenzato poi il sound dei brani, dandogli del- le coordinate internazionali. Ad esempio il country di Nashville credo che sia abbastanza eviden- te in “Love means trouble”; e in “Lost without you” puoi ricono- scere alcune atmosfere dei cantau- tori irlandesi. L’onda del songwriting anglosas- sone e americano in particolare è ben presente nei tuoi ascolti. anche nelle epoche: vita, amore e morte sono quello che arriva, che scegliamo o che subiamo. Possia- mo raccontarlo con un amplifica- tore valvolare o con un sequencer digitale ma in realtà le intensità della gioia e del dolore rimango- no sempre le stesse. Alcune delle foto appartengono al passato della mia famiglia e altre le ho trovate nei mercatini dell’usato. Alcune hanno delle dediche dietro che ti stringono il cuore. C’è una dina- mica simile tra quello che sta suc- cedendo ora e quello che accadeva verso gli anni trenta: un profondo sonno della ragione e grandi sto- 18 Ma c’è un disco che hai ascoltato di più durante le lavorazioni del tuo ultimo? Mentre registravo mia moglie mi ha fatto notare che per mesi mi sono alzato la mattina mettendo sul piatto Running on Empty di Jackson Browne, che è stato poi messo al bando da lei e mia figlia maggiore. Ho ascoltato tanto “Ple- ased to meet” dei Replacements, Alex Chilton con i Big Star e da solo, “Around the wold in one day” di Prince. vviamente Dylan, Neil Young, Van Morrison, Carole King e via dicendo sono sempre in default sullo stereo. Abbiamo regi- strato il disco alla Lobello Records e volevamo sfruttare appieno gli ambienti della Masseria. Quindi ho riascoltato i dischi di registra- zioni home made come quelle di Springteen e Sebadoh. Mi hanno aiutato a capire non il suono finale ma come fare alcune scelte di pro- duzione, come il riverbero scelto non da un plug-in ma dall’eco pre- sente nella stanza di ripresa. Char- les Bradley, Anderson Paak, Fran- kie Valli, Jackie Wilson, Brenton Wood, Casisdead… sono dj a 45 giri per metà della mia vita, cioè quando non suono con la band, potrei andare avanti all’infinito e rimbalzando di genere in genere. Perché hai deciso di chiudere il disco con “Higher”, che si stacca parecchio dal resto del disco per sonorità? Nei miei dischi precedenti chiu- devo la tracklist con uno strumen- tale o con un brano più elettro- nico che erano stati registrati per diverse colonne sonore. In questo disco però la prima e quarta trac- cia sono quelle inserite in un cor- to, Ius Maris, presentato a Vene- zia del 2018. Quindi ho scelto di chiudere con Higher che racconta una storia di un’alba estiva, di due persone che vivono quel momen- to di una festa che ti porta in alto e che sfiora il pericolo di inna- morarsi con un bacio. Da quasi vent’anni saluto il sole che si alza sul mare adriatico in Salento e ho visto questa scena centinaia di volte mentre mettevo l’ultimo di- sco sul piatto. Higher mi sembrava il modo giusto di chiudere una fe- sta e anche un album o un lato di un vinile. 19