rie di passione e di libertà.
Tutti i brani del disco sono nati
“on the road”. Quali sono le qua-
lità che acquistano i tuoi brani
quando nascono in viaggio?
La spontaneità. L’imprinting dato
dalla prima parola o accordo re-
siste a tutto: agli arrangiamenti,
agli strumenti aggiunti, alle ore
in sala prove e ai concerti. Ogni
canzone se la spogli dalle sezioni
fiati, organi, ritmica, chitarre, cori,
tastiere arriva al suo stato primor-
diale di appunti di parole e accor-
di. Sono state scritte dappertutto:
su una panchina, su un divano,
in una camera d’albergo, in mac-
china, davanti a un caffè o all’ul-
tima birra. Anche i luoghi dove
sono nate hanno influenzato poi
il sound dei brani, dandogli del-
le coordinate internazionali. Ad
esempio il country di Nashville
credo che sia abbastanza eviden-
te in “Love means trouble”; e in
“Lost without you” puoi ricono-
scere alcune atmosfere dei cantau-
tori irlandesi.
L’onda del songwriting anglosas-
sone e americano in particolare
è ben presente nei tuoi ascolti.
anche nelle epoche: vita, amore e
morte sono quello che arriva, che
scegliamo o che subiamo. Possia-
mo raccontarlo con un amplifica-
tore valvolare o con un sequencer
digitale ma in realtà le intensità
della gioia e del dolore rimango-
no sempre le stesse. Alcune delle
foto appartengono al passato della
mia famiglia e altre le ho trovate
nei mercatini dell’usato. Alcune
hanno delle dediche dietro che ti
stringono il cuore. C’è una dina-
mica simile tra quello che sta suc-
cedendo ora e quello che accadeva
verso gli anni trenta: un profondo
sonno della ragione e grandi sto-
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Ma c’è un disco che hai ascoltato
di più durante le lavorazioni del
tuo ultimo?
Mentre registravo mia moglie mi
ha fatto notare che per mesi mi
sono alzato la mattina mettendo
sul piatto Running on Empty di
Jackson Browne, che è stato poi
messo al bando da lei e mia figlia
maggiore. Ho ascoltato tanto “Ple-
ased to meet” dei Replacements,
Alex Chilton con i Big Star e da
solo, “Around the wold in one
day” di Prince. vviamente Dylan,
Neil Young, Van Morrison, Carole
King e via dicendo sono sempre in
default sullo stereo. Abbiamo regi-
strato il disco alla Lobello Records
e volevamo sfruttare appieno gli
ambienti della Masseria. Quindi
ho riascoltato i dischi di registra-
zioni home made come quelle di
Springteen e Sebadoh. Mi hanno
aiutato a capire non il suono finale
ma come fare alcune scelte di pro-
duzione, come il riverbero scelto
non da un plug-in ma dall’eco pre-
sente nella stanza di ripresa. Char-
les Bradley, Anderson Paak, Fran-
kie Valli, Jackie Wilson, Brenton
Wood, Casisdead… sono dj a 45
giri per metà della mia vita, cioè
quando non suono con la band,
potrei andare avanti all’infinito e
rimbalzando di genere in genere.
Perché hai deciso di chiudere il
disco con “Higher”, che si stacca
parecchio dal resto del disco per
sonorità?
Nei miei dischi precedenti chiu-
devo la tracklist con uno strumen-
tale o con un brano più elettro-
nico che erano stati registrati per
diverse colonne sonore. In questo
disco però la prima e quarta trac-
cia sono quelle inserite in un cor-
to, Ius Maris, presentato a Vene-
zia del 2018. Quindi ho scelto di
chiudere con Higher che racconta
una storia di un’alba estiva, di due
persone che vivono quel momen-
to di una festa che ti porta in alto
e che sfiora il pericolo di inna-
morarsi con un bacio. Da quasi
vent’anni saluto il sole che si alza
sul mare adriatico in Salento e
ho visto questa scena centinaia di
volte mentre mettevo l’ultimo di-
sco sul piatto. Higher mi sembrava
il modo giusto di chiudere una fe-
sta e anche un album o un lato di
un vinile.
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