bene alle canzoni, le proprie e
quelle degli altri, ti fanno compa-
gnia.
Il disco si chiama Stanze, ma
personalmente lo vedo poco “al
chiuso”: mi sembra anzi che le
atmosfere siano urbane ma aper-
te, come se avessi scritto le can-
zoni vagando per una città stra-
niera…
In effetti è così. Quei quattro soldi
che guadagno alla fine li spendo
in musica e in viaggi, perché è bel-
lo. Kreuzberg, i borghesi di oggi e
le loro contraddizioni. Tirana an-
cora di più, con le sue connota-
zioni affettive, che mi lasciato un
cuore arabo e una mente europea.
E poi Genova, la mia casetta con
una finestra tra le montagne e il
mare. Stanze perché in ogni can-
zone compare la parola o il con-
cetto di stanza, ma è vero, è un di-
sco di visioni esterne. Il prossimo
lavoro dichiaratamente sarà sulle
città.
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Ho trovato sorprendente la cover
de “I giardini di marzo”: come
nasce l’idea?
Lo ritengo uno dei brani più belli
che le mie orecchie abbiano
ascoltato e la sera, quando sono
solo, lo suono spesso. Una pre-
ghiera alla vita. Volevo renderle
onore senza presunzioni o virtuo-
sismi inutili, una specie di litania,
una carezza. Non so se sono stato
in grado di rendere ciò che mi fa
provare.
Vorrei sapere come nasce “Kreu-
zberg”, nella quale sento forti
influenze della new wave italia-
na, che forse vanno anche al di là
della tua età anagrafica
Kreuzberg nasce dopo un viaggio
a Berlino, dove vive mia sorella.
Volevo rappresentare le emozioni
che stava/stavamo vivendo così ho
diviso il brano in tre parti distinte,
anche nel metronomo affinché si
potessero percepire tre differenti
emotività. In effetti sia nelle
tematiche generazionali che
nell’arrangiamento ci sono for-
ti spunti a quella new wave, ma è
capitato inconsapevolmente.
Vorrei che ci raccontassi qualco-
sa anche del tuo lavoro presso
la onlus alla quale presti la tua
opera.
La mission dell’Istituto è legata
alle persone non vedenti, delle
quali ancora si occupa. Offre tut-
tavia servizi alla persona ormai a
360 gradi. Io lavoro sia con le
persone non vedenti, con le qua-
li ho un laboratorio musicale, di
coro e con malati psichiatrici.
Fare l’educatore è faticoso, ma
estremamente arricchente. Mi
considero molto fortunato per-
ché, pur nelle sue enormi diffi-
coltà, è un lavoro di significati,
di parola. Certo la trincea dell’a-
nima a volte lascia sgomenti,
stanchi, impauriti ma ne vale la
pena.
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