ORSON
una dedica all’acustica
Si autodefinisce “non electric songwriter” e ha pubblicato un ep, “Here”
che mantiene esattamente quello che promette: canzoni dirette e semplici,
voce e chitarra, emozioni e intensità a livelli molto alti
essere filtrati soltanto da me e d
al mio
strumento. Ho sempre avuto un feeling
particolare con l’acustica, è la chitarra
su cui compongo tutte le canzoni e c he
mi ha seguito in tutti questi anni da
una città all’altra fino al ritorno alla
base, in Puglia, a Corato. Orson nasce
come una dedica alla dimensione acu-
stica, a quello che ho fatto nelle mie
camerette sparse per l’Italia in tutti
questi anni. Ma c’è di più. Avevo biso-
Suonavi nella dream pop b
and d
ei
Barbados, ora ti presenti con un disco
da songwriter “non-elettrico”: puoi
spiegare com’è maturata la scelta?
Suono ancora nei Barbados. La band è
viva e impegnata nella scrittura del
primo LP. Orson è nato perché avevo
dei pezzi scritti durante gli anni che mi
sembravano adatti alla dimensione
voce e chitarra, a un’ambientazione più
intima e personale. Pezzi che dovevano
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dato qualche consiglio, ascoltato atten-
tamente. Faceva molto freddo e invece
di andarcene in giro, d
i pezzi ne abbia-
mo registrati cinque e non due. Il resto
è tutto dentro quelle cinque tracce.
La title track “Here” sembra frutto di
una malinconia “dolce”: da quali senti-
menti nasce e perché hai scelto il suo
titolo per definire l’ep?
Anche qui ti racconto una storia. Il pez-
zo originariamente doveva chiamarsi
“Where”, il titolo doveva fare da con-
trappunto alla ripetizione ossessiva di
“Here” durante tutta la canzone, dove-
va porre una domanda la cui risposta
poteva essere (ma anche no) trovata
nelle liriche. Poi sono andato a suonare
al circolo Arci La Mescla a Civitavec-
chia, il primo live di Orson in assoluto,
e i ragazzi di là il giorno dopo mi hanno
girato un paio di video. Uno di questi
era quello d
i “Where”. In fase di mon-
taggio quando lo hanno pubblicato, ho
visto che era stato
ribattezzato “Here”,
perché vallo a capi-
re, a loro veniva più
naturale così. O for-
se perché la dimen-
sione spaziale è pro-
prio lì (e qui), nel testo. Allora mi son
detto, ok ragazzi, avete ragione voi,
sarà “Here” il nome. Tutto questo è ac-
caduto molto prima che registrassi o
che avessi un’idea più precisa di quello
che doveva essere il disco.
gno di confrontarmi con il palco da solo.
Di salire, imbracciare la chitarra, guar-
dare in faccia le persone che avevo da-
vanti e suonare. P
erché ho sempre
avuto timore e una certa ansia nell’af-
frontare un pubblico. Che siano 100
persone o 3, amici o volti sconosciuti, la
sensazione è sempre quella. Mani di
legno e voce rotta. Ho pensato che Or-
son potesse essere anche un progetto
terapeutico da questo punto di vista.
Devo dire che la terapia funziona anche
se si può sempre migliorare.
Un disco nato “in cucina”, con l’aiuto
di qualche amico e di un po’ di vino
rosso: puoi raccontarci qualche altro
particolare delle lavorazioni?
Versione breve: è una storia di amici-
zia, questo è l’unico particolare che s er-
ve raccontare. Versione lunga:
Wolfman Bob - aka Roberto Colella -
doveva t ornare per un weekend a Cora-
to, il nostro paese a
40 km a nord di
Bari. Siamo amici da una vita, mi ave-
va confessato che avrebbe portato con
sé un paio di microfoni, di quelli buoni,
un registratore da field recording pro-
fessionale e che gli sarebbe piaciuto
registrare un paio di pezzi. Così l’ho
invitato a cena: f ocaccia, latticini e una
bottiglia di Nobile di Montepulciano
rubata dalla cantina di mio padre. Poi
è arrivato anche Gino, anche lui di base
altrove, a Bologna,anche lui amico da
una vita, anche lui a Corato per quel
weekend. Così ci ha fatto compagnia,
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