possa spiegare con parole relativamen-
te semplici.
Dal punto di vista sonoro hai cercato
di andare un po’ oltre la classica ma-
trice da songwriter di estrazione folk.
Quali erano i tuoi obiettivi, da questo
punto di vista, scrivendo l’ep? Ritieni
di averli raggiunti tutti?
La mia passione principale è la musica
alternativa. Con i Valerihana mi risul-
ta più facile sperimentare anche per il
solo fatto di trovarmi in una band, ma
quando si è da soli con una chitarra la
creatività e la fantasia fanno da guida.
Devi fare davvero le scelte giuste altri-
menti sei scontato. Spesso e volentieri
sdolcinato mi ha portato a cambiare
qualcosa. Alla fine l´80% del reperto-
rio che cantavo nelle varie band in cui
suonavo era in inglese, quindi il pas-
saggio non è stato poi cosi difficile. Ho
vissuto molto tempo all’estero dove la
maggior parte del tempo ho parlato (e
parlo ancora) inglese, oltre allo svedese
e a quella sorta di dialetto avellinese
che uso quelle due volte al mese in cui
chiamo a casa. Quando scrivo qualcosa
lo faccio sempre in inglese perché mi ri-
sulta più pratico, l’italiano è una lingua
troppo complicata. Della lingua inglese
mi piace il suono delle parole e il fatto
che anche un concetto complesso lo si
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tautorato per quanto riguarda la parte
musicale. Una buona ispirazione, però,
viene dall’Inghilterra e dagli USA anni
90’.
Vivi a Stoccolma: che tipo di acco-
glienza c’è per il tuo tipo di musica?
Vivo ancora a Stoccolma e devo dire
che apprezzo molto il fatto che qui non
ci si spaventa dinanzi alla novità. Vuoi
farli arrabbiare? Suonagli le cover. Ci
si annoia facilmente nel vedere le cose
ripetersi e il fatto che ci sia un’apertu-
ra cosi forte verso le nuove culture ti fa
capire quanta curiosità c’è nell’aria. La
città cambia velocemente, si riempie
di nuovi luoghi e persone, non passano
un paio di mesi che ti ritrovi in un po-
sto tutto nuovo. Non è difficile trovare
occasioni per suonare. In tutti questi
anni ho conosciuto molti musicisti e
condiviso tante cose insieme a loro. Ho
aiutato spesso una organizzazione che
si chiama Stockholms Groove, che so-
stiene e aiuta gli artisti emergenti. È
davvero motivante poter essere di sup-
porto a chi come me non desidera altro
che essere ascoltato. Per il momento mi
trovo bene qui, anche se nulla esclude
la possibilità di tornare a casa. Non mi
dispiacerebbe registrare un altro paio
di canzoni nel posto in cui sono nato.
La gran parte del supporto è sicura-
mente venuta dalla mia famiglia, i miei
amici e Stefano di AR Recordings che
subisce costantemente i miei discorsi
spesso senza un filo logico.
accordo la chitarra in modo differente,
uso molto il capotasto e vado alla ricer-
ca di accordi che non avevo util izzato
prima. L’idea, inizialmente, era quella
di dare alle mie canzoni un indirizzo
folk, un po’ alla Neil Young, per inten-
derci, senza trascurare l’irruenza delle
chitarre elettriche e del basso. È venu-
to fuori, invece, il prevalere degli archi
su tutto, cosa che non mi ha sorpreso
più di tanto e ha semplicemente posti-
cipato quello che volevo fare in questo
album. Riguardo agli obiettivi, quello
principale era cercare di stare meglio.
La musica mi tiene compagnia quan-
do sono solo e mi suggerisce cosa dire
quando mi trovo davanti ad altre per-
sone. Quindi se la domanda è se sono
soddisfatto e felice di questo progetto,
la risposta è sì.
Quali sono i tuoi punti fermi musicali?
Mi piacciono molto i Lemonheads, i Di-
nosaur Jr., Bob Mould e i Superchun-
ck. Queste band sono il fondamento di
quello che faccio, li ascolto in continua-
zione e sento che ho sempre molto da
imparare da loro. Nel periodo che ha
preceduto “Lunch at 12 since ‘82” ho
ascoltato molto i Neutral Milk Hotel,
J Mascis e The Cure, che di sicuro mi
hanno dato la giusta spinta nel buttare
giù queste cinque canzoni. Quanto alla
musica italiana, mi piacciono molto Lu-
cio Battisti, Bruno Lauzi e Pierangelo
Bertoli. L’aver vissuto in Italia di sicu-
ro mi ha influenzato in ambito di can-
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