poco tempo trasformai la mia camera
in un mini studio di registrazione e in
paio di settimane avevo già un’idea ab-
bastanza chiara di quello che sarebbe
stato “Lunch at 12 since ‘82”. Appena
le prime registrazioni presero forma,
contattai qualche etichetta. Fui mol-
to sorpreso quando la prima chiamata
arrivò: “Ciao sono Sfefano quello di AR-
recordings, ho sentito i pezzi che mi hai
inviato e sono bellissimi”.
Hai dedicato il disco all’abitudine di
pranzare alla stessa ora ogni giorno
dei tuoi genitori, e in genere ai capisal-
di che tengono unite le persone. Come
ti è venuta questa illuminazione e qua-
vo bisogno di pensare più a me stesso,
mangiavo cibo di merda, non dormivo
la notte e pensavo a come non pensa-
re. Non ero più convinto di quello che
stavo facendo e lamentarsi non certo
avrebbe aiutato a risolvere tutto que-
sto. Dopo l’ultimo incontro con i Vale-
rihana mi resi conto che era arrivato il
momento, dopo quasi sei anni, di torna-
re a casa. Erano anni che non passavo
più di una settimana con la mia fami-
glia. La situazione era perfetta, nella
mia mente prendeva già forma lo sce-
nario dell’esordio solista. Avevo bisogno
soltanto di uno studio per registrare e
un’etichetta che mi potesse seguire. In
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li sono gli altri spunti su cui hai co-
struito il disco?
Vivere lontani da casa, a volte, fa di-
menticare da dove veniamo e spinge
spesso a cambiare abitudini. Pren-
de il sopravvento il posto a sedere
in metropolitana, le corse sulle sca-
le mobili, l’ultimo del mese e i costi
dell’affitto. Quando torni a casa tutto
questo ti scivola via di dosso, sembra
non appartenerti. Non mi ero mai
soffermato così minuziosamente su
tutto ciò che accadeva ai miei genito-
ri. Qualche volta me li ero immagi-
nati seduti a tavola, ma averli visti
in carne e ossa ha avuto tutto un
altro effetto. Quello che ho fatto per
prendere spunto per le mie canzoni è
stato osservare e fotografare per poi
descrivere e spiegare. L’esigenza di
pranzare alle 12 in punto è dettata
un po’ dal fatto che mio padre sia un
operaio, un po’ dalla cultura che sce-
glie quell’orario preciso per fare un
punto della situazione su ciò che ci
accade o dovrà accadere. Le aziende lo
chiamano meeting, io lo chiamo “lunch
at 12”, mia madre lo chiama “a tavola
che è pronto”. A parte analizzare quel-
lo che accadeva in quel piccolo mondo
familiare, il tema principale del disco
trova spunto anche in molti episodi vis-
suti a Stoccolma, tra tutte quelle bozze
di canzoni che avevo per trovare quelle
che rispecchiassero il tema di “Lunch
at 12 since ’82” pur senza fare diretta-
mente riferimento a mio padre e mia
madre. Episodi come la fiducia verso
chi ti circonda, l’adattarsi a un tipo di
cultura praticamente nuova, il traslo-
co, la voglia di scappare via. È come se
lo stesso istante venisse vissuto in due
posti diversi.
Hai iniziato a scrivere canzoni in ita-
liano ma poi hai scelto l’inglese:
perché?
All’inizio, un po’ la musica che ascolta-
vo - prevalentemente in inglese - un po’
il fatto che tutto ciò che scrivevo suo-
nava troppo melodico e terribilmente
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