Non c’è una volontà reale dietro. Sicuramente durante il primo disco vivevo un periodo più spensierato. Con
“Everyone was sleeping” ho processato
tutto ciò che è successo in quattro anni,
tra i ventiquattro e i ventinove, che
sono un periodo esagerato in termini
di crescita umana. In un certo senso
mettersi a nudo è una cosa che metti
in conto quando decidi di fare musica.
Ogni cosa che ho scritto, da quando ho
la possibilità di scrivere, è personale.
Il modo di presentarla è più o meno
velato. Forse con “The Universe” ho
osato un po’ di più e le cose dette sono
più dirette. Però sono convinto che una
buona metà del disco sia comunque difficile da interpretare.
Come nasce “Your Drugs”?
Nasce da un verso, quello finale. E da
un momento di frustrazione. Volevo
renderla cantilenante, e scanzonata.
È diventata grottesca e malinconica,
che è esattamente l’obiettivo.
Mi racconti qualcosa anche della genesi di “Wires”?
Oh. Keaton Henson? Continuavo a suonarla e a suonarla. Veniva bene nella
mia testa e ho provato a registrarla.
Le liriche sono quasi improvvisate.
Avevo un canovaccio di testo, parole
buttate a caso, prima di tutto “Don’t
look down, I’ve put wires all around”.
E mi sono immaginato un innamorato
pazzo che distende fili e cavi per tutta la casa per intrappolare la persona
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che ama. È un pezzo triste. Ho creato
rumori di sottofondo, per confondere la
melodia. Volevo riprodurre il suono di
un generatore o un flusso di corrente,
qualcosa di poco piacevole. Non ho idea
se ci sono riuscito.
Quali sono i dischi che ti hanno maggiormente influenzato nell’ultimo periodo?
Non ne ho idea. Ascolto musica in continuazione. Siamo un gruppo di amici che si consiglia dischi da ascoltare,
prevalentemente nuove uscite. Ci piace
stare al passo. Penso di aver processato
un po’ di tutto. Facendo musica da solo
c’è il rischio di scrivere musica sulla
falsa riga di un gruppo che ti piace.
Per farti un esempio. Due anni fa ero
innamorato di una band di Maiorca,
Oso Leone. Li ho sentiti live un paio
di volte, atmosfere sognanti, un po’ di
elettronica. Ho fatto un disco così, con
le stesse atmosfere, con le stesse sonorità. Ho usato anche un pianoforte
vero, chitarre ultra effettate, e sintetizzatori. Non era male. Ma non era
mio. L’ho buttato via. Tutto. Non è rimasto quasi nulla di quelle registrazioni. Quindi di solito cerco di mantenere
una linea, avere consistenza nei suoni
e nei messaggi. Se devo fare dei nomi
di dischi che ho ascoltato e riascoltato
ultimamente (ultimo anno), “Cavalho”
di Rodrigo Amarante, “Vicious” di His
Clancyness e “It’s a wonderful life” di
Sparklehorse.