TRAKS INTERVIEW TRAKS INTERVIEW #2 | Page 32

Non c’è una volontà reale dietro. Sicuramente durante il primo disco vivevo un periodo più spensierato. Con “Everyone was sleeping” ho processato tutto ciò che è successo in quattro anni, tra i ventiquattro e i ventinove, che sono un periodo esagerato in termini di crescita umana. In un certo senso mettersi a nudo è una cosa che metti in conto quando decidi di fare musica. Ogni cosa che ho scritto, da quando ho la possibilità di scrivere, è personale. Il modo di presentarla è più o meno velato. Forse con “The Universe” ho osato un po’ di più e le cose dette sono più dirette. Però sono convinto che una buona metà del disco sia comunque difficile da interpretare. Come nasce “Your Drugs”? Nasce da un verso, quello finale. E da un momento di frustrazione. Volevo renderla cantilenante, e scanzonata. È diventata grottesca e malinconica, che è esattamente l’obiettivo. Mi racconti qualcosa anche della genesi di “Wires”? Oh. Keaton Henson? Continuavo a suonarla e a suonarla. Veniva bene nella mia testa e ho provato a registrarla. Le liriche sono quasi improvvisate. Avevo un canovaccio di testo, parole buttate a caso, prima di tutto “Don’t look down, I’ve put wires all around”. E mi sono immaginato un innamorato pazzo che distende fili e cavi per tutta la casa per intrappolare la persona 32 che ama. È un pezzo triste. Ho creato rumori di sottofondo, per confondere la melodia. Volevo riprodurre il suono di un generatore o un flusso di corrente, qualcosa di poco piacevole. Non ho idea se ci sono riuscito. Quali sono i dischi che ti hanno maggiormente influenzato nell’ultimo periodo? Non ne ho idea. Ascolto musica in continuazione. Siamo un gruppo di amici che si consiglia dischi da ascoltare, prevalentemente nuove uscite. Ci piace stare al passo. Penso di aver processato un po’ di tutto. Facendo musica da solo c’è il rischio di scrivere musica sulla falsa riga di un gruppo che ti piace. Per farti un esempio. Due anni fa ero innamorato di una band di Maiorca, Oso Leone. Li ho sentiti live un paio di volte, atmosfere sognanti, un po’ di elettronica. Ho fatto un disco così, con le stesse atmosfere, con le stesse sonorità. Ho usato anche un pianoforte vero, chitarre ultra effettate, e sintetizzatori. Non era male. Ma non era mio. L’ho buttato via. Tutto. Non è rimasto quasi nulla di quelle registrazioni. Quindi di solito cerco di mantenere una linea, avere consistenza nei suoni e nei messaggi. Se devo fare dei nomi di dischi che ho ascoltato e riascoltato ultimamente (ultimo anno), “Cavalho” di Rodrigo Amarante, “Vicious” di His Clancyness e “It’s a wonderful life” di Sparklehorse.