Test number one Natale 2017 | Page 3

Spezzare un braccio o carezzare le guance?

Tra Hegel e Cristo scelta senza esitazioni

Entrerà nei testi di storia, nel capitolo delle migrazioni, la foto dell’agente di polizia che in strada, durante uno sgombero violento, carezza una rifugiata eritrea. Siamo in Piazza Indipendenza, a Roma. Se il lettore ben ricorda, abbiamo già cercato di capire altre foto del genere, che da sole riassumono un evento storico, e abbiamo cercato di prevedere i significati che esse trasmetteranno agli scolari che se le troveranno davanti, aprendo il testo di storia. In questo momento mi torna agli occhi la foto di una folla di migranti che entrano in un Paese dell’Est europeo: arrivano in massa al confine, la polizia li picchia con i manganelli e gli scudi, due bambini di pochi anni, fratello e sorella, al di qua di tutti, in primo piano, strillano a squarciagola, in mezzo a questa gragnuola di colpi, e non capiscono niente: picchiano sulla testa i nostri genitori? E perché? Chi sono? Dove possiamo scappare? È la storia: tutti prigionieri, tutti subiamo, nessuno può sfuggire.

La foto che vediamo ora, e che nessuno dimenticherà, è un’immagine enigmatica, crudele-affettuosa, violenta-serena. Una profuga eritrea di età adulta, probabilmente una madre, piange davanti a un poliziotto, un pianto muto, disperato e dignitoso, dritta in piedi, con una faccia impenetrabile, di pietra. Il poliziotto le sta fermo davanti a meno di un metro, ha l’elmo in testa con la visiera alzata, sicché non la guarda attraverso il vetro, ma direttamente in viso. Con ambedue le mani le stringe la faccia, come quando si blocca un interlocutore, perché stia bene a sentire quel che stiamo per dirgli.

Ma i due sguardi non s’incrociano: lui la fissa risoluto, lei tiene gli occhi chiusi, con le palpebre calate. La bocca di lei piange, ha gli angoli piegati in giù, forma quello che gli psichiatri e i narratori della psichiatria, come Ottiero Ottieri, chiamano «omega malinconico», perché somiglia a un omega maiuscolo. Ma l’omega malinconico è un prodotto del male psichico, inconscio, inafferrabile, che non si riesce a dire, non ha un nome. Il male di questa donna è concreto, reale, oggettivo: lei non ha niente, non sa dove ricoverarsi dalle intemperie. La stanno cacciando di casa, e quell’omega malinconico chiede: "E ora dove vado?".

Dalle didascalie sappiamo che il poliziotto risponde. Può rispondere? No, non dovrebbe. Lui è un servitore dello Stato, non è lì per eseguire quello che vuole lui, ma quello che vuole lo Stato. Se qualcuno non è contento per quella esecuzione, non deve chiedere spiegazione a lui, ma allo Stato. Sappiamo che al pianto di lei lui risponde: "Non preoccuparti, ti daranno un’altra casa", e le tiene stretta la faccia a portata di voce per assicurarsi che lei abbia capito bene. Anche se non avessimo le didascalie, capiremmo dalla foto che il dialogo è questo, perché la foto è eloquente. I nostri figli, un domani, quando la vedranno nei loro libri, la capiranno. La capiscono già oggi. Infatti a casa il figlio del poliziotto che carezza la profuga ha detto al padre: "Sono fiero di te", comprendendo che il padre ha fatto qualcosa che non era nel suo dovere, ma fuori e sopra il suo dovere, e che dunque il suo dovere di agente non è il suo dovere di uomo, e che per lui il suo dovere di uomo supera il suo dovere di agente.

È difficile, in situazioni come questa, schierarsi. Al liceo stavo con Antigone, che, tra onorare e seppellire il fratello morto o obbedire allo Stato che lo vuole insepolto, sta col fratello, però sono entrato in crisi quando ho trovato che Hegel stava contro Antigone, perché, diceva, Antigone è la morale della famiglia, che è una morale piccola e vecchia, mentre lo Stato è la morale ampia e moderna. Qui negli scontri di Piazza Indipendenza si rinnova lo stesso conflitto. C’è un funzionario che ha detto ai poliziotti: "Se qualcuno vi tira un sasso, spaccategli il braccio". Hegelianamente, ha ragione. Cristianamente, ha torto. Tra lo spezzamento del braccio e la carezza sulle guance dobbiamo scegliere. Io scelgo la seconda.

di Ferdinando Camon

L'EDITORIALE