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Quel che rimane della Transumanza \\\ PERCHE’ /// Se Breve indagine sul cambiamento antropologico dell’Appennino centrale anche le pecore avessero una Terra Promessa non potrebbe che essere l’Appennino, la spina dorsale che divide lo stivale italiano in est e ovest. E, forse perché ogni Terra Promessa che si rispetti deve contemplare la partenza, poi la lontananza e infine il ritorno, già secoli fa, i pastori che abitavano quelle montagne -in epoche in cui dai greggi dipendeva la sopravvivenza quotidiana di intere popolazioni- si erano inventata la Transumanza. In latino “transumare”, parola che mette insieme il prefisso “trans” (attraverso) e il sostantivo “humus” (suolo), vuol dire transitare da un terreno all’altro. Così dai territori marchigiani dei Sibillini e dei Monti della Laga ma, soprattutto, dai massicci abruzzesi, alla fine della stagione calda, i pastori, con i loro garzoni e le loro mandrie, migravano dai pascoli montani verso le pianure, percorrendo centinaia di chilometri per raggiungere le meravigliose distese d’erba del Tavoliere di Puglia o le colline delle Murge e del Gargano, alla ricerca di pascoli abbastanza floridi e grandi, da sfamare le masse di animali durante l’inverno. Per poi rifare il percorso al contrario, all’arrivo della bella stagione, e tornare verso casa; per sfruttare, a disgelo avvenuto, le distese d’erba più ad alta quota. Se la pratica di transumare era già diffusa dall’Età del Bronzo, fu con i Sanniti, poi con i Romani e, molto più tardi, con gli Aragonesi, che essa si sviluppò in modalità più organizzate e addirittura regolamentate. La migrazione dei pastori e dei loro greggi, con tutti gli scambi commerciali a cui davano vita, avveniva attraverso i “tratturi”, percorsi erbosi creati dal passaggio delle carovane di animali, a volte larghi più di cento metri. Si calcola che la loro estensione totale, tra l’Italia centrale e il nord della Puglia, fosse di circa 3000 chilometri. Si trattava di un sistema complesso in cui, da arterie più centrali, si ramificavano miriadi di tratturelli, disseminati di rifugi e ricoveri per il bestiame. Erano i tempi in cui ammazzare un lupo, predatore per eccellenza degli ovini, e portarne in giro la carogna -di villaggio in villaggio- per mostrarla a tutti, ti dava il diritto alla riconoscenza in natura (latte, formaggi, lana, carne, verdure) dei paesani; tempi in cui l’allevamento era la forma economica più rilevante delle regioni montane. Ma non c’era la sola economia in ballo. La Transumanza era una realtà culturale, sociale e antropologica che ha impregnato di sé la vita materiale e spirituale di quei luoghi e di quelle genti, come testimonia il fatto che lungo i tratturi sono sorti, epoca dopo epoca, centri isolati di culto e di arte, torri, castelli, rocche e centri abitati fiorenti di commerci. Lungo la strada i pastori avevano i loro punti di riferimento, famiglie o intere comunità presso cui sostare, riposarsi dal cammino, mungere e preparare il formaggio da vendere o da rendere in cambio dell’ospitalità e del riparo, mettendo in moto un dinamica virtuosa di relazioni e di commerci. Il loro passaggio scandiva le stagioni e collegava commercialmente e culturalmente due contesti molto diversi tra loro, le regioni montagnose centrali e la pianura 56 / WHY MARCHE TESTo E FOTO DI GIAMPAOLO PATICCHIO