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Eccoci giungere infine a Miami 2018, sempre
quarti di finale. Kevin Anderson ritrova
Carreno Busta, con cui conduce 4-0 nei
precedenti, il più recente dei quali disputato
nella semifinale degli US Open. Due set a dir
poco rocamboleschi, con lo spagnolo che si
fa breakkare sul più bello nel secondo set e
vede trascinato al terzo un match
letteralmente dominato per un’ora e mezzo.
La prova di carattere del sudafricano si
dissolve però nuovamente nel momento più
importante. Al tie-break Kevin approda a
match point, e ancora una volta trova il
conforto della prima: Carreno, come Dimitrov
a Toronto, si inventa una risposta di fortuna,
disegnando una parabola alta e lenta su cui
Anderson ha tutto il tempo di impostare, a
campo spalancato, il dritto che chiuderà la
contesa. Quel dritto finisce però fuori di
metri, Carreno infila un allungo di tre punti Anderson fino ad un mese fa, suggellata
l’anno scorso dalla finale raggiunta agli US
Open e persa per mano di Nadal, ed
impreziosita da alcuni scalpi eccellenti, tra
cui quello di Andy Murray agli US Open
2015. Eppure neanche i 204 centimetri del
gigante sudafricano sembravano renderlo
immune dalla più subdola insidia di ogni
tennista: il “braccino”, il braccio che si fa
irrimediabilmente pesante e che, proprio nel
momento in cui dovrebbe eseguire il colpo
decisivo, smette all’improvviso di rispondere
ai più semplici comandi fisiologici.
consecutivi e vola in semifinale. che gli è sempre stata riconosciuta, ma
anche quella per lui più difficile da
conquistare e coltivare, quella che spesso lo
Una carriera di tutto rispetto quella di
C’è chi impara subito a conviverci, e c’è chi
ci impiega una carriera. A 32 anni, Kevin
Anderson non poteva regalarsi un
palcoscenico più illustre per manifestare la
propria potenza tennistica, non soltanto
quella da “bombardiere” e grande colpitore