PERSONAGGI / OUR CHARACTERS
La surciara
racconto di Vincenzo Di Pasquale
L
a surciara arrivò al tramonto, aveva
il capo coperto da un fazzoletto
nero con le cocche annodate sotto il
mento ossuto ed era avvolta da uno
scialle di cotone ancora più nero. Ad
ogni passo scomposto, su di un fianco
danzavano sudice frange penzolanti
dall’orlo, ultime propaggini delle
gramaglie che portava addosso.
L’ombra si incurvava su una collina di
gobba. A vederla da lontano sembrava
una minacciosa nuvola d’acqua, ma
non appena si avvicinava si schiariva:
dal volto sbiancato le usciva un
sorriso sdentato e di tanto in tanto un
ciuffo grigio le pennellava la fronte
rugosa. Lei, con un gesto meccanico,
se lo cacciava dentro il velo nero che
incorniciava la testa a pera.
Il marito era morto da alcuni mesi.
Una mala caduta dal carretto gli aveva
provocato una profonda ferita al capo,
un taglio dal quale era uscita materia
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S ea C astle M agazine
grigia. Era morto con un rantolo,
dissanguato il pover’uomo, nelle
grasse campagne di Balata di Baida.
Cavallo e carretto avevano proseguito
alla campia.
Durante la notte erano arrivati al
borgo di case e l’acciottolio nervoso
e disordinato, senza governi, aveva
svegliato i balatari. Non era buon
segno. Perciò gli uomini, scupetta
a tracolla, si misero alla ricerca
del proprietario. Lo trovarono
cadavere e con un lento segno di
croce commentarono amaramente:
”Mischinu, zu Paulu, sa runni codda
la so arma!”. La sua anima vagava nel
nulla, dopo essersi strappata dal misero
corpo riverso con la testa impasticciata
tra terra e sangue.
Non avevano figli don Paolo e
donna Maria. La vedova era riuscita
a vendere cavallo e carretto a buon
prezzo, perché l’animale godeva di
ottima salute e conosceva la strada
del mulino. Con il ricavo ci avrebbe
potuto campare per quel che le restava
da vivere e con la casa di proprietà,
grazie a Dio, non avrebbe avuto grossi
pensieri. I proprietari del mulino di
Castellammare, per onorare l’onestà
del carrettiere - mai una manciata di
farina era mancata da quei sacchi -
chiamarono la moglie per affidarle un
lavoro particolare.
Fu così che la za Maria ritornò a fare
la surciara, pratica che aveva ereditato
dalla nonna materna e che una volta
sposata aveva abbandonato. Per ogni
topo preso i mugnai le avrebbero
offerto un pugno di farina, ma di prima
qualità, s’intende.
Quel pomeriggio la surciara era
giunta a Castellammare a piedi e
si recava, per l’appunto, al mulino
per acciuffare i maledetti topi che
di notte sbafavano farina e crusca a