SeaCastle Magazine SeacastleMagazine n.2 agosto 2017 | Page 22
PERSONAGGI / OUR CHARACTERS
L’arrivo dell’espresso in paese
racconto di Vincenzo Di Pasquale
Q
uella mattina la piazzetta del bar era
affollata e chiassosa come in una
giornata domenicale. Una ventata di euforia
investiva gli avventori, mentre la primavera
iniziava a mitigare i rigori invernali.
La macchina del caffè intanto lavorava
senza interruzione, il barista si dava un
gran da fare con le leve dell’espresso che
sbuffavano come un treno a vapore nella
manovra di arresto. Si sentiva al timone
di una nave e l’orgoglio emergeva con un
sorriso appena accennato che chiudeva fra
due parentesi di rughe le labbra carnose.
Non gli era mai piaciuto così tanto il
mestiere di garzone e ora, che manteneva
la rotta dritta verso il progresso, ci provava
gusto ergendosi sul ponte di comando.
La macchinetta dell’espresso, tutta
cromata, bordata da una fascia amaranto,
era arrivata da pochi giorni da Bologna.
Il marchingegno, sul quale ci si poteva
anche specchiare, era la sua consolle. Il
caffè fuoriusciva schiumoso con un’anima
aromatica che attraversava il corso
Garibaldi, insinuandosi per le finestre, per i
balconi, per le fessure delle porte. Sfiorava
gli edifici come una nebbia invisibile,
sorvolava le straduzze, sostava nei cortili.
Entrava persino in chiesa confondendosi
con i fumi dell’incenso. Padre Antonino
più volte s’era affacciato dalla canonica
per capire da dove provenisse l’odore che
faceva la concorrenza agli effluvi sacri.
Era il barista l’artefice di quel messaggio
olfattivo così seducente da fare svegliare,
con sbadigli d’allegria, gli uomini del
paese. Sui tavoli del bar le tazzine
tintinnavano per effetto del cucchiaino
che miscelava con un giro vorticoso
caffè, schiuma e zucchero. Gli occhi degli
avventori affondavano nella bevanda
aromatica preparata dalla diabolica
macchina che solo il cameriere Totò sapeva
armeggiare e che, per l’appunto, era stato
promosso al grado di barista.
Si era impegnato per tre giorni di fila.
I tecnici della ditta bolognese avevano
faticato a insegnargli l’arte dell’espresso:
una mano qua, l’altra così. No! La leva
deve essere accompagna delicatamente.
Ecco, in questo modo! Guarda.
Riproviamo.
Dai beccucci cromati dapprima usciva una
specie di brodaglia, che si andava via via
colorando con uno sputo di schiuma. Erano
stati utilizzati chili di chicchi tostati, di
quelli scadenti s’intende, prima che uscisse
abbondante la schiuma che con sfumature
marroncine rendeva seducente la bevanda
calda. Il color caffè quell’anno fu di gran
moda. Gli uomini andavano alla ricerca
di cinture, scarpe, calzini, pantaloni, gilet,
cravatte di quell’identica tinta. Addirittura
qualcuno pretendeva “l’effetto schiuma”
in giacche da potere esibire nelle occasioni
mondane. Sembravano lontani quegli anni
in cui Totò, ancora garzone, preparava
la bevanda per i più facoltosi clienti con
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l’orzo e, per il popolino, con semi di
cicoria tostati. Adesso dalla macchina non
usciva più caffè qualsiasi ma l’espresso
e lui - Totò in persona! - non era più
garzone o cameriere, ma barista a tutti
gli effetti. Unico a saper armeggiare con
quelle diaboliche leve del benessere! Totò
espresso avrebbe voluto essere chiamato,
per suggellare l’accoppiata del dopoguerra!
Si era nel pieno futuro!
Le tazzine in bella mostra sui tavoli rotondi
del bar del Corso contenevano un sogno
che adesso si materializzava sotto gli occhi
di tutti. L’espresso andava sorseggiato,
con grazia. Dapprima ci si inumidiva il
labbro superiore, poi la tazzina veniva
portata sotto il naso per carpirne i seducenti
effluvi, quindi si riponeva delicatamente
sul piattino per ammirare la corposità
della schiuma, dopo si ripescava per il
manico con l’indice e il pollice, il mignolo
proiettato rigorosamente verso l’alto,
gustando i primi veri sorsi. E si procedeva
così fino a vedere depositati sul fondo i
granelli di zucchero. Un ultimo rapido giro
in aria della tazzina e giù a trangugiare i
residui dolci dell’espresso che venivano
masticati tra i denti.
Quel giorno si trovava a transitare il
carrettiere Mummino. Pare che cavallo e
padrone seguissero l’aroma dei caffè che
spumeggiavano sui tavoli sparsi. L’uomo
trasportava dei sacchi di grano che doveva
scaricare al mulino di San Giuseppe. Era
l’ora giusta per una pausa. Attratto dal
profumo e da quella folla festosa che
si radunava davanti al bar Moderno, il
carrettiere Mummino strinse le redini e con
un prolungato ahhhhhhhh, bloccò cavallo e
mezzo che parcheggiò più in là dei tavoli.
Aveva sentito parlare di questo speciale
caffè che non era preparato per infuso e
nemmeno con la caffettiera napoletana, che
già di per sé era una novità per il paese. Lo
chiamavano espresso, come il treno che
univa Trapani e Palermo in sole cinque ore.
Il carrettiere Mummino frugò nel taschino,
aveva soldi a sufficienza da permettersi, per
una volta, il lusso di una bevanda come Dio
comanda, di quella che allargava le narici,
stordiva e, come dicevano in giro, lasciava
le labbra più morbide del velluto e la lingua
come la seta.
“Na vota sula si campa!”, pensò tra sé.
Entrando nel bar con la voce grossa
comandò al barista Totò un espresso, non
prima di essersi ripassato mentalmente
l’ordine e di avere inghiottito un bel po’
d’aria. Lui, che non era avvezzo a questi
lussi cittadini, non lo sorseggiò ma lo bevve
di colpo, scottandosi la lingua e leccandosi
le labbra che non s’erano fatte vellutate
ma, cornuto demonio, avvampate. Avrebbe
voluto bestemmiare, fare scendere i Santi
dal cielo per chiedere loro soddisfazione,
ma lo trattenne un certo ritegno al cospetto
di quel congresso di galantuomini.
Quando il bruciore si placò, iniziò a
percepire il gusto della nuova bevanda,
con la lingua schioccò sul palato e con il
robusto braccio si strusciò le labbra. Poi
cacciò fuori un vigoroso respiro, come per
dire che ne era valsa la pena nonostante la
scottatura. A occhio e croce doveva farcela
con i soldi, anche se in quell’istante gli
vennero dei forti dubbi.
Teneva nella tasca quasi 50 lire.
Sarebbero bastati?
Si guardava attorno pensieroso.
In ogni caso si sarebbero certamente fidati
del carrettiere Mummino, che almeno
due volte la settimana saliva il corso per
raggiungere il mulino. Sempre tra i piedi
era.
Andò per pagare.
Già teneva in mano biglietti da dieci lire,
e con l’altra armeggiava nervosamente
frugandosi dentro il taschino per cacciare
fuori anche gli spiccioli, se fosse stato
necessario.
Don Maurizio, il titolare del bar, senza
alzare gli occhi, mentre conteggiava su
alcuni foglietti, cinguettò con labbra
pizzute: ”Mezza lira, don Mummino!”
Il carrettiere, credendo di aver capito male,
chiese:
“Quanto?”
“Mezza lira, don Mummino, mezza lira”,
alzando gli occhi si rivolse al cliente. Il
carrettiere con un sorriso depose in tasca la
banconota da 50 lire e prelevò la modesta
moneta porgendola a don Maurizio. Uscì
senza salutare e di fretta. Non era una
scortesia, no. Qualche minuto dopo rientrò
con una latta scoperchiata, la passò al
barista pregandolo di riempirla di caffè,
espresso s’intende, se usava questa cortesia.
Il barista lo guardò di sghimbescio con aria
interrogativa. Il carrettiere Mummino chiarì
i suoi dubbi:
“A stu prezzu l’espressu puru pi lu me
mulu!”.
Il barista Totò gli restituì uno sguardo