La ba aglia del tempo libero
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di Michele d’Orsi
Pochi passi e sarebbe ricominciata. La paura di rientrare dopo il
lavoro, formica schifosa che nidifica all’ultimo anello della sua
spina dorsale, per aggrapparvisi e risalire fino alla base del collo,
a quel punto risulta familiare come il caffé e le brioches al mattino; come il pointer dei Pax che tre isolati più in là ulula ogni
sera un de profundis dedicato a lui, ultimo abitante di un mondo
butterato e silente. Quel pianeta ai margini della galassia, fatto
di cassette della posta vuote e brusii di tv nascoste dietro tende
pesanti e finestroni, altri lo chiamano, viale fratelli Wright, otto
e mezza di sera. Ma per Tomas J. Debur, impiegato di banca,
trentacinque anni e un matrimonio fallito alle spalle, quel luogo
e quel momento sono diversi. È il preludio, l’attesa, l’occhio del
ciclone, la quiete prima della tempesta in cui naufraga da anni,
come una zattera di assi marce in balìa dell’oceano. Percorre la
strada assaporando ogni istante, calcola il numero dei blocchi di
cemento che separano la sua proprietà da quella del vicino, si accerta della buona salute dei platani che lo spiano dai cortili delle
case coloniche così brutte e uguali, con la vernice azzurrina dei
tetti che è come un pugno in un occhio. Qualunque cosa, anche
il voltastomaco che gli suscita il colore smorto delle villette, si
rivela utile a estendere quel lasso di tempo, ritardare il momento
cruciale in cui avrebbe varcato la soglia di casa. Espedienti del
tutto inutili ora che le dita armeggiano con la serratura del recinto che circonda il giardino di casa, e il pensiero corre fulmineo
al salotto in stile liberty, immerso nelle tenebre. Tac! Tac! Tac! I
suoi stessi passi sono un countdown per l’inizio dell’apocalisse,
mentre gli ultimi raggi di un pigro sole autunnale battono sulle spalle, come a consolare un coscritto che vada ad unirsi alle
trincee di prima linea. Tac! Tac! Tac! Le chiavi fanno un fracasso
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