samente mutilati l’uno dall’altro a seconda di ciò che dettava il
riscoperto estro brutale dei singoli carnefici.
Su una delle pareti più vicine a lei notò il sarcastico segno lasciato
in eredità agli sfortunati invitati da sadici coreografi: l’immagine
incorniciata, l’unica della casa, di un uomo dal volto scarno, con
un sorriso abbozzato presidiato da piccoli baffi neri. Sotto l’immagine di quell’uomo, per lei sconosciuto, una didascalia incisa
su una targhetta color oro dichiarava: Sir George Orwell (19031950).
La posizione fetale assunta dalla ragazza ammutolita e distesa sul
freddo pavimento della stanza non le avrebbe permesso di esaminare ulteriormente la macabra scena, ma grazie a quella sua
nuova visuale (con la guancia poggiata in terra in attesa di percepire le vibrazioni dell’arrivo di chissà chi) poté scorgere un altro
corpo non molto lontano da lei e di cui non si era accorta prima,
nascosto dietro il divano sul quale giaceva il ragazzo con i polsi
tagliati. Cercò e trovò la forza morale per rialzarsi, aveva a suo
vantaggio un’energia fisica non ancora intaccata dai lunghi giorni
di digiuno, e avvicinandosi al nuovo corpo avvistato si accorse
con profonda gioia mista a stupore che si trattava di un’en tità
ancora in vita. Era una giovane donna, profondamente debilitata
e con uno sguardo perso nel vuoto, ma viva!
Il flebile movimento della cassa toracica durante i rallentati atti
respiratori e l’impercettibile tremolio delle labbra disidratate,
come se stesse pregando a bassa voce, erano i provvidenziali e
miracolosi segnali di una vita ancora presente. La fiamma dell’esistenza stava per abbandonare quella donna, forse perché già
sazia d’angoscia o non abbastanza disperata da staccare brandelli di carne da uno dei cadaveri. Stava morendo e la nuova arrivata
avrebbe fatto di tutto per tenerla in vita un altro minuto ancora:
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