reale quanto assurdo.
Un contatto per poter confessare in modo filiale e sinistro le proprie indicibili colpe in nome della beltà, le vezzeggiate vanità
ostentate, le scaltre competizioni offerte sull’altare del successo, la facilità del vivere, l’ignoranza come valore, la ricchezza che
deriva dal corpo, i libri spavaldamente snobbati, la macchinosa
furbizia insita nei giochi dell’immagine, la goliardica sicurezza nei
confronti del mondo brutto, i calendari… Come in un’orrida sindrome di Stoccolma che precede l’oblio della morte.
E sì, perché questo era ciò che esigeva l’altro lato dello specchio:
la distruzione della personalità mediatica, prima ancora del corpo. Un pentimento registrato su cassetta e imposto con il terrore derivante da un insopportabile silenzio, interrotto solo da agghiaccianti grida di dolore. L’esame di coscienza derivante dalla
consapevolezza della fine esigeva tempi interiori non influenzabili dal regista occulto.
Un contatto con il proprio ego, riflettente, a senso unico e senza
risposte confortanti, prima di rivolgere la propria violenta disperazione verso la fonte dell’orgoglio fisico o verso i compagni di
quel viaggio allucinante.
Essere stati nominati. Ma da se stessi.
La ragazza non ebbe il coraggio di concentrarsi su tutte le scene
plasticamente macabre che le si prospettavano dinanzi, mentre
tremante calpestava laghi prosciugati di vomito e sangue lasciati
lì da chi non aveva avuto più speranza se non nella indegna platealità di una naturale angoscia da offrire al carceriere.
Il corpo emaciato di un ragazzo dalla barba incolta giaceva esanime su un divano di pelle gialla ornato da due ampie macchie di
sangue solido e nero: su entrambe le braccia, all’altezza dei polsi,
25