Nell’ampia stanza, tra paradossali mobili seminuovi, disposti in
modo ordinato e con gusto, giaceva un mucchio indefinito di corpi umani, forse un paio di decine, irrimediabilmente senza vita,
vestiti o seminudi, congelati in posizioni surreali e raccapriccianti
dettate da un oscuro e malvagio regista invisibile, assetato di sofferenza tangibile.
Vittime cronologicamente differenti di una serie, difficile da ricostruire, di morti naturali, di omicidi e suicidi o, forse, di morti
richieste quale ultima preghiera e rivolte all’indirizzo di chi aveva
ancora la forza di infliggere un colpo sicuro e letale. Sanguinosi
corto circuiti di gruppo, come foglie cadute da un albero in autunno: un giardiniere innominato verificava, con scientifica curiosità, le degenerazioni comportamentali, le ingenue speranze di chi
credeva nella salvezza, gli scatti di ira liberatoria e devastante,
le pietose scene di pentimento accanto ai feretri, i momenti in
cui rivolgevano le improvvisate armi contro se stessi. Tutto documentato e registrato con la dovizia di particolari tipica di chi è
presente ovunque.
La diversa decomposizione di ognuno di quei corpi era la prova
evidente che non solo le morti erano avvenute in tempi differenti e non simultaneamente, ma che lo stesso arrivo dei vari invitati
era stato centellinato in base a un premeditato e macabro progetto, studiato da un freddo sperimentatore senza ormai alcuna
traccia di umana compassione.
Superato l’orribile impatto visivo generale, la ragazza, semiparalizzata dal terrore, cominciò la non meno difficile esplorazione
della stanza alla ricerca di un ospite ancora vivo a cui poter rivolgere la propria disperata richiesta di spiegazioni e di aiuto.
Anche questa stanza, come forse tutte le altre di quell’indefinito,
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