(Dante Alighieri, La Divina Commedia
Inferno, Canto XXXIII, 67-74)
Quando riaprì gli occhi, l’unico ricordo ancora persistente nella
sua mente confusa e spaventata era quello di un fazzoletto bianco piegato e dallo strano odore mentre si avvicinava minacciosamente tra naso e bocca. Non aveva avuto nemmeno il tempo di
capire a quale specie di essere umano appartenesse la grossa e
vigorosa mano che lo sosteneva nel palmo.
Fu un attimo e la sequenza successiva consistette in un classico
tunnel nero da anestesia con eco annessa. Poi seguì il nulla audiovisivo.
Il risveglio in quella stanza buia non fu più incoraggiante dell’oblio: si ritrovò distesa supina su un vecchio materasso maleodorante poggiato in terra; la bocca impastata di dolce saliva al
cloroformio e polvere, e un bruciore sottile ma fastidioso proveniente dagli arti inferiori. Il posto non era completamente buio,
come le era sembrato durante i primi secondi dall’apertura delle
LA CASA DEL GRANDE FRATELLO DI MICHELE NIGRO
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso à piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non mi aiuti?”.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre a uno a uno
tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
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