condita con un insopportabile bullismo; la competitività fin
dall’asilo e la prospettiva poco allettante di diventare un
operaio-schiavo; forse l’assenza fisica e affettiva dei genitori
sempre impegnati nei turni in fabbrica o la pressione delle
aspettative da loro esercitata; come pure l’esasperante mito
dell’auto-realizzazione professionale che mieteva “vittime” e
che, inculcato fin dall’età prescolare, tarlava inesorabilmente
la psiche dei più deboli. Non ultimo, lo sviluppo economico
come priorità dell’affascinante “alveare nipponico” e il
conseguente sacrificio dei valori umani.
Forse anche la schizofrenica condizione di un paese
incapace di riconoscersi nei valori tradizionali e sempre
più condizionato da un’onnipresenza tecnologia fatta di
smartphone e aggeggi vari imposti dalla moda, o da una
distanza umana causata da fredde videochat e ipermercati
aperti anche di notte per chi volesse evitare la gente…
O, chissà, l’insieme di tutto questo.
I pochi metri quadrati della stanza in cui Kiro stava pian piano
ammuffendo tra la rassegnata indignazione dei g V