incorniciato dal telaio sgombro delle imposte aperte,
qualcun altro si precipitò svelto per il selciato
che conduce all’androne. Tornai all’ingresso, apertolo
discesi la rampa a precipizio, rovinai ruzzolando sugli
ultimi quattro scalini e nondimeno chiusi il cancello prima
che quell’altro potesse varcarne la soglia. Quindi risalii
scapicollandomi come Willy Mays e raggiunsi il tappeto
sul pianerottolo, valutando l’opportunità di bussare alle
porte dell’intero condominio, sperando vi dimorasse
ancora un’accoglienza misericordiosa. Suonò il citofono
e non trattenni due lacrime d’isteria. Inerpicandomi
per il secondo piano, sacramentai lungo venti gradini in
mancanza dell’ascensore. Dimenticavo che il sabato è fatto
per l’uomo e non viceversa: tutti sciamati via, e in sostanza
nessuno aprì. Mentre il citofono strombazzava imperituro,
indugiavo impietrito su desolati
ballatoi, considerando di tornare in cantina e rimanerci
finché una macchina non avesse imboccato
il garage, ma frugandomi per le chiavi rammentai
l’automatismo col quale ne appesi il mazzo al
gancio sullo stipite dell’uscio, dentro casa; dovevo
rientrare.
Scendevo e nonostante provassi a distogliere lo sguardo,
vidi l’individuo al citofono.
Non volli soffermare su di lui la vista, sicuro che il cancello
gli sarebbe stato aperto di lì a poco,
quindi non potrei descriverlo fedelmente, ma all’occhiata
fugace sembrava deforme, e continuava a suonare, ma
nessuno gli apriva. Quando fui dentro scorsi la mole
dell’uomo, ancora alla finestra: vagiva esacerbato, con le
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