una carezza calda e umida mi toccò il viso. Sbattei le palpebre
confusa e mi ritrovai in ginocchio con il viso a pochi
centimetri da due occhioni marroni che mi guardavano con
estrema tristezza, ma accesi da una punta di speranza.
Ecco il mio ostacolo: un cucciolo di cane, di circa un mese; un
piccolino dal pelo rado e fulvo, debole e palesemente
denutrito, con la coda tra le gambe in segno di paura e
sottomissione. Chi poteva essere il bastardo che aveva
abbandonato quel tenero cagnolino in pieno inverno? Chissà
da quanto vagabondava. Lo guardai senza riuscire a parlare.
Cosa potevo fare? Io non ero un tipo da animali domestici.
Nove ore al giorno fuori di casa, sempre al lavoro e di corsa…
non potevo prendermi cura di lui. Il cucciolo mugolò ancora e
quel suono mi trafisse il cuore e l’anima. Era fradicio e solo,
proprio come me. Non potevo lasciarlo lì. Sarebbe morto di
fame o dal freddo o ucciso da una macchina. Quegli occhi
spaventati e tristi continuavano a fissarmi e quando mi leccò
nuovamente in un timido bacio, capii che il mio destino era
segnato. Lo presi in braccio e lo nascosi sotto la giacca per
dargli un minimo di protezione. Poi corsi più velocemente
possibile alla macchina col mio piccolo e fragile fagottino
accoccolato sul mio petto.
Mi precipitai a casa e deposi il cucciolo sul divano (al diavolo
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