Pubblicazioni e documenti Destin Baloss ! | Page 32

creduto di scorgervi) che poi ho trasformato in uno spettacolo, con voci, ritmi, scene, costumi, musiche, luci: il nostro modo di scrittura, di noi interpreti, sulle sabbie mobili del teatro di cui resta solo la traccia nel copione con freghi a matita che rimpiazzano altri freghi e altri segni. Certamente la cosa che più mi colpisce - e ricordo quanti dubbi mi costò - è la decisione di recitare il Nost Milan in tre atti anziché in quattro, fondendo in uno solo due atti (il secondo e il terzo) dell’originale. C’era qui un agguato persino del “divertimento teatrale”, molto sottile. Il secondo atto di Bertolazzi infatti si svolge un certo sabato “nel” cortile del Broletto. Cioè nello stesso cortile del Piccolo Teatro, fuori del palcoscenico. In quel cortile lo spettatore durante l’intervallo avrebbe potuto visitare e toccare “sul serio” muri e case dopo averle viste “per finta” sul palcoscenico! Questo problema, ricordo, con la sua seduzione quasi irresistibile per il regista, soprattutto per il giovane regista che ero, fu risolto come doveva, cioè non cadendo nel gioco della teatralità e del teatro e del non teatro, in fondo così facile, nella sua apparente “intelligenza” critica. Decisi di far svolgere un solo atto, nelle Cucine Economiche e là, in qualche modo, far convergere tutto o quasi tutto il testo del gioco del lotto nel cortile del Broletto. Poiché, certo, questo “gioco del lotto”, questa speranza ultima dei poveri, questa eterna possibilità impossibile non poteva essere messa da parte. Così là, nelle povere cucine, un sabato a mezzogiorno, con freddo e sole, con le prime sirene lontanissime di una città che si industrializza e le campane che quasi si opponevano a quel suono lungo e nuovo con il suono invece familiare che scandiva il ritmo della giornata e della vita, si parlava anche del lotto di ieri e, attraverso questo, del lotto di oggi. Si parlava di povertà e violenza (c’era violenza anche in quel giorno, c’era il massacro, alle porte, tra l’altro, di Bava Beccaris) si parlava di disoccupazione, di lavoro non trovato e tanto cercato, si parlava di miseria e di fame, di vita che costa sempre più cara, di “danee” di “cinq franc de roba” che viene ormai pagata dieci, insomma si parlava, in un 30 frammento di umano, di una città che già correva tutta verso il disumano e già non sapeva come fermare questa corsa che ci porta al nostro oggi. Questo secondo lungo atto, come una piccola sinfonia, in cui temi e contro- temi si svolgono e si troncano per poi riprendere, diventava molto denso con una sua poesia aspra e sospesa, che comportava enormi difficoltà ritmiche per costruire una unità che in partenza mi pareva quasi perdersi – qua e là – nel bozzetto, nel colore locale. Su quelle tavole di legno scuro, davanti al quartino di vino e alla tazzina di minestra povera (a Parigi qualcuno scrisse che si sentiva in sala persino l’odore dei cavoli di quella minestra! Mentre il Paoloeu, cuciniere di teatro, rimestava nei suoi pentoloni solo grandi nuvole di ghiaccio secco “per fare il fumo” a teatro, viveva la sua breve avven- tura un piccolo cosmo di “povera gent” di sottoproletariato di una città in cre- scita senza armonia e poca pietà, povera gente che però trova continuamente dentro, un tepore fraterno, una lombarda pudica solidarietà fatta di pochi gesti, sia una canzone accennata, sia un sorriso appena sfiorato e nascosto da parola ruvida, sia un passo che rallenta la sua corsa. Certo questo lavoro di “riscrittura” che fonde due temi e due attimi di teatro distinti in uno solo, richiedeva e richiede oggi agli interpreti una estrema sensi- bilità negli accordi e nei registri, richiede una specie di leggerezza dei toni e dei gesti che purtuttavia mai deve andare a discapito della severità dei contenuti, della chiarezza cruda e violenta di questo grido dal fondo che è El nost Milan di Carlo Bertolazzi. È un grido dal fondo, dal fondo di una città violentata, già allora violentata, dal fondo del sottoproletariato urbano con ancora tanto di contadino che si inurba e mi viene da dire semplicemente, ancora una volta, come questo paese-città si è mosso appena nella sua storia più densa in tanti anni. Quasi un secolo. Gli “altri”. Già allora, venticinque anni fa, pareva chiara la secchezza di Bertolazzi che tanto facilmente può essere presa, basta che lo si voglia, basta che ci si fermi allo schema e al modulo esteriore, per “bozzetti- stica”, e qua e là per “melodramma”. Ma mi toccava, mi tocca sempre di più, la “pertinenza” “provocatoria” di questo brulicare di vita sotterranea che si D E S T I N B A L O S S ! C A R L O B E R T O L A Z Z I A C E N T O A N N I D A L L A M O R T E 31