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dispera in solitudine, in solitudine si diverte, in solitudine mangia e muore, ma
che è anche capace di amore carnale o tenero (o le due cose insieme), questa
umanità che ha rapporti complessi con i suoi compagni di classe o sottoclasse
e rapporti semplicissimi e diversi con gli “altri”, appunto i “loro”. Semplici e
diretti, ma non semplicistici: gli “altri” sono soltanto gli avversari ancora irrag-
giungibili, gli dei di un Olimpo borghese inattaccabile che detiene un Potere
imperscrutabile o, all’opposto, perscrutabilissimo.
Parlano del Lotto, ad esempio, come “ultima speranza”, del sabato come una
cosa da aspettare per poter vivere. Vedono aprirsi una tragedia se qualcuno
butta lì (ed è un operaio a dirlo) che “il Lotto stanno per sopprimerlo”. Uno
dice: “Sopprimerlo sare bbe come buttarci in mezzo alla strada. Piuttosto oc-
corre la riforma. La riforma della ruota. E prima di tutto cambiare il martini-
no” (il ragazzino del collegio degli orfani che, bendato tira fuori dalla ruota i
numeri ogni sabato). Incalza un’altra: “Ma certo, cosa vuol dire questo tirare
fuori, così all’orba? Bisognerebbe che ognuno tirasse una volta per uno (de-
mocraticamente, aggiungo io) i suoi numeri. Così ci sarebbe giustizia”. “Tanto
più che, fa ancora l’operaio, io dico che gli assessori giocano sul sicuro, cono-
scono la cinquina, già da ieri sera”.
E così via scoppiano bombe di profondità che ancora oggi attraverso il dialetto
di una città che lo sta perdendo arrivano - almeno così a noi è parso nel corso
di tutte le prove - nella platea contemporanea, insieme quasi ad una specie di
disperata e tenera richiesta di non perdere questa nostra lingua straordinaria,
questa lingua-radice di una collettività, una delle tante di cui il nostro mondo è
ricco ma è incapace di difendere come un patrimonio ineguagliabile, che non
“divide” gli uomini ma invece li rende più ricchi, più vicini, inimitabili. Scop-
piano barlumi di rivolte e di lacerazioni che ci hanno fatto constatare molto
spesso in questi giorni quanta lotta è passata, quanta storia per cambiare in
fondo così poco.
memoria nel tessuto della nostra vita sociale. Abbiamo avuto il sentimento che
questo Nost Milan di oggi risulterà forse più acre del previsto o di quello che
prevedono i piccoli esegeti, i piccoli esegeti, i piccoli intellettuali della nuova
(o mai nata) filosofia, gli esegeti del provocatorio quando esso è solo grido,
disperazione, nulla. Più provocatorio perché purtroppo, con tutti i trasferimen-
ti del caso, ancora “pertinente” alla nostra vita di uomini contemporanei. Più
provocatorio perché terribilmente umano - ah! il terribile e vergognoso timore
dei codardi verso la vita davanti all’umano che per essi diventa solo romanti-
cismo deteriore o populismo da romanzo d’appendice! - terribilmente umano
in un mondo che corre verso il gelo di sterminate periferie che certamente
nemmeno la luce di questo spettacolo di teatro potrà cancellare o nascondere
o addolcire.
Ma semmai ancora di più denunciare, per opporsi, per tentare di mutare, non
con un gioco della nostalgia, la realtà di questa nostra città-patria-mondo, e
scuoterci con infiniti interrogativi proprio sul divenire della nostra convivenza
che non sappiamo più se è giusto chiamare umana e civile.
(dal programma di sala El nost Milan 1979-1980, Archivio Piccolo Teatro di
Milano - Teatro d’Europa)
Rielaborando un testo del passato ci è sembrato insomma di sentire che il suo
sottofondo non è superato, che non è allontanato come un sogno o come una
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D E S T I N
B A L O S S !
C A R L O
B E R T O L A Z Z I
A
C E N T O
A N N I
D A L L A
M O R T E
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