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creduto di scorgervi) che poi ho trasformato in uno spettacolo, con voci, ritmi,
scene, costumi, musiche, luci: il nostro modo di scrittura, di noi interpreti,
sulle sabbie mobili del teatro di cui resta solo la traccia nel copione con freghi
a matita che rimpiazzano altri freghi e altri segni.
Certamente la cosa che più mi colpisce - e ricordo quanti dubbi mi costò - è
la decisione di recitare il Nost Milan in tre atti anziché in quattro, fondendo
in uno solo due atti (il secondo e il terzo) dell’originale. C’era qui un agguato
persino del “divertimento teatrale”, molto sottile. Il secondo atto di Bertolazzi
infatti si svolge un certo sabato “nel” cortile del Broletto. Cioè nello stesso
cortile del Piccolo Teatro, fuori del palcoscenico. In quel cortile lo spettatore
durante l’intervallo avrebbe potuto visitare e toccare “sul serio” muri e case
dopo averle viste “per finta” sul palcoscenico!
Questo problema, ricordo, con la sua seduzione quasi irresistibile per il regista,
soprattutto per il giovane regista che ero, fu risolto come doveva, cioè non
cadendo nel gioco della teatralità e del teatro e del non teatro, in fondo così
facile, nella sua apparente “intelligenza” critica.
Decisi di far svolgere un solo atto, nelle Cucine Economiche e là, in qualche
modo, far convergere tutto o quasi tutto il testo del gioco del lotto nel cortile
del Broletto. Poiché, certo, questo “gioco del lotto”, questa speranza ultima dei
poveri, questa eterna possibilità impossibile non poteva essere messa da parte.
Così là, nelle povere cucine, un sabato a mezzogiorno, con freddo e sole, con
le prime sirene lontanissime di una città che si industrializza e le campane che
quasi si opponevano a quel suono lungo e nuovo con il suono invece familiare
che scandiva il ritmo della giornata e della vita, si parlava anche del lotto di ieri
e, attraverso questo, del lotto di oggi. Si parlava di povertà e violenza (c’era
violenza anche in quel giorno, c’era il massacro, alle porte, tra l’altro, di Bava
Beccaris) si parlava di disoccupazione, di lavoro non trovato e tanto cercato, si
parlava di miseria e di fame, di vita che costa sempre più cara, di “danee” di
“cinq franc de roba” che viene ormai pagata dieci, insomma si parlava, in un
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frammento di umano, di una città che già correva tutta verso il disumano e già
non sapeva come fermare questa corsa che ci porta al nostro oggi.
Questo secondo lungo atto, come una piccola sinfonia, in cui temi e contro-
temi si svolgono e si troncano per poi riprendere, diventava molto denso con
una sua poesia aspra e sospesa, che comportava enormi difficoltà ritmiche per
costruire una unità che in partenza mi pareva quasi perdersi – qua e là – nel
bozzetto, nel colore locale. Su quelle tavole di legno scuro, davanti al quartino
di vino e alla tazzina di minestra povera (a Parigi qualcuno scrisse che si sentiva
in sala persino l’odore dei cavoli di quella minestra!
Mentre il Paoloeu, cuciniere di teatro, rimestava nei suoi pentoloni solo grandi
nuvole di ghiaccio secco “per fare il fumo” a teatro, viveva la sua breve avven-
tura un piccolo cosmo di “povera gent” di sottoproletariato di una città in cre-
scita senza armonia e poca pietà, povera gente che però trova continuamente
dentro, un tepore fraterno, una lombarda pudica solidarietà fatta di pochi
gesti, sia una canzone accennata, sia un sorriso appena sfiorato e nascosto da
parola ruvida, sia un passo che rallenta la sua corsa.
Certo questo lavoro di “riscrittura” che fonde due temi e due attimi di teatro
distinti in uno solo, richiedeva e richiede oggi agli interpreti una estrema sensi-
bilità negli accordi e nei registri, richiede una specie di leggerezza dei toni e dei
gesti che purtuttavia mai deve andare a discapito della severità dei contenuti,
della chiarezza cruda e violenta di questo grido dal fondo che è El nost Milan
di Carlo Bertolazzi. È un grido dal fondo, dal fondo di una città violentata, già
allora violentata, dal fondo del sottoproletariato urbano con ancora tanto di
contadino che si inurba e mi viene da dire semplicemente, ancora una volta,
come questo paese-città si è mosso appena nella sua storia più densa in tanti
anni. Quasi un secolo. Gli “altri”. Già allora, venticinque anni fa, pareva chiara
la secchezza di Bertolazzi che tanto facilmente può essere presa, basta che lo
si voglia, basta che ci si fermi allo schema e al modulo esteriore, per “bozzetti-
stica”, e qua e là per “melodramma”. Ma mi toccava, mi tocca sempre di più,
la “pertinenza” “provocatoria” di questo brulicare di vita sotterranea che si
D E S T I N
B A L O S S !
C A R L O
B E R T O L A Z Z I
A
C E N T O
A N N I
D A L L A
M O R T E
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