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me sono stati Shakespeare e Goldoni, che seppero
gestire (almeno fino a un certo punto) gli attori
acquisendo un ruolo particolare nella compagnia
(il primo come attore, il secondo come autore fisso
e stipendiato).
Bertolazzi si affida alle didascalie e partecipa an-
che alle prove, con ottimi risultati. Non ci risulta-
no, infatti, particolari rimostranze nei confronti
dei suoi interpreti, tra i quali dobbiamo ricordare,
nella prima e seconda stagione, Gaetano Sbodio
e Davide Carnaghi (formatisi nella compagnia di
Edoardo Ferravilla), e, nella terza stagione, alcu-
ni tra i principali attori del teatro nazionale, come
Ferruccio Benini (Amigo de tuti, Egoista, La zitella),
Virgilio Talli (La casa del sonno, La zitella), Ruggero
Ruggeri (La casa del sonno), Teresa Mariani (Lulù,
Lorenzo e il suo avvocato), Ermete Novelli (Ombre
del cuore).
Bertolazzi, dunque, crede molto nelle didascalie,
il cui rispetto è necessario nelle scene d’insieme.
Quando non sono rispettate, le cose vanno male.
Ecco cosa scrive nel 1901 a Decio Guicciardi,
drammaturgo (La torta, 1901) e responsabile di
una compagnia milanese, a proposito del secondo
atto di Gibigianna:
Si nota una generale trascuratezza, una smania
di strafare tantoché di un atto d’assieme ne risul-
ta alla fine un indigesto minestrone senza sale. Il
secondo atto della Gibigianna se lo ricordino, gli
egregi artisti della Compagnia Milanese, è un atto
pericoloso. Per quel che riguarda l’esecuzione è un
abito cucito a macchina; se si rompe un filo, l’abi-
to si disfà di colpo. E ieri sera di fili se ne ruppero
parecchi [...]. Raccomandi che tutti devono stare
al testo. Per quanto sia preziosa la collaborazione
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degli artisti io, per le mie idee, sono costretto a
rifiutarla.
Il teatro bertolazziano è dunque certamente con-
cepito per la rappresentazione, ma per quella rap-
presentazione, sulla quale Bertolazzi fa aggio con
didascalie che, nella loro precisione, anticipano le
note di regia del teatro di oggi. Sicché, le scene
d’insieme offrivano e offrono al regista ben pochi
spazi per dare allo spettacolo uno stile suo. La po-
vera gent e la Gibigianna si possono fare in un
modo solo, un po’ come Aspettando Godot, che
l’alberello ci deve essere e gli attori non possono
fare altro che girarci intorno. Tanto è vero che
Strehler riuscì solo a fondere il secondo atto (Estra-
zione del lotto) con il terzo (Cucine economiche)
ma, quanto al resto, dovette assecondare Bertolazzi.
Se quello spettacolo è rimasto nella storia del tea-
tro è perché Strehler, regista dotato oltre che di un
talento sconfinato anche di tutto lo strumentario
culturale che i capocomici non avevano, sfruttò al
massimo luci, scene e costumi, gesti e intonazione
degli attori ecc., e perché La povera gent si inseriva
perfettamente nella sua ideologia e nel ‘sentimen-
to del tempo’ (vivo nel 1955 e nel 1960, un po’
scemato nel 1979). Ma oggi, fare La povera gent
diversamente da Strehler (e meglio di lui) è un’im-
presa che scoraggia un regista che voglia aggiun-
gere qualcosa di nuovo alla storia del teatro.
A conti fatti, il teatro di Bertolazzi è un teatro dif-
ficile per il pubblico e per le compagnie, perché
non lascia scampo: il pubblico è indotto allo stra-
niamento invece che all’immedesimazione (questa
difficoltà viene sottolineata anche nelle recensioni
del tempo), e le compagnie sono costrette ad ac-
cettare precise condizioni tecniche ed economiche.
È un teatro difficile anche da leggere, perché al
lettore è richiesta la massima concentrazione, in
particolare quando l’azione procede lentamente,
come nelle scene d’insieme, nelle quali Bertolazzi sem-
bra voler suggerire che la scarsità dei fatti consen-
ta e anzi richieda uno sguardo panoramico. Ma in
realtà, Bertolazzi, come i grandi giallisti, sa nascon-
dere l’informazione cardinale, svilupparla poco alla
volta fino a quando appare in tutta la sua evidenza
come se fosse stata detta per la prima volta.
I Sciori è il caso emblematico. L’informazione car-
dinale, la premessa del dramma, riguarda l’aborto
della Contessina Ormini (relazione con un servito-
re), che deve essere tenuto nascosto al Marchese
Riccardo di Rivalta (ingenuo reduce delle esplora-
zioni africane) che il fratello Don Ceser, per salvare
le sostanze della famiglia, vuole fargli sposare. Il
segreto lo conoscono tutti, e finirà pertanto per
conoscerlo anche lui.
Bertolazzi introduce sottotraccia questa informa-
zione nel primo atto, poi la sviluppa nel secondo e
la esplicita solo nel terzo. Il primo atto è ambien-
tato alla domenica mattina nell’Anglo-American
Bar dove gli uomini consumano l’aperitivo in pie-
di (secondo la moda americana) mentre le donne
assistono alla messa. I dialoghi si sovrappongono,
si interrompono, sfumano nel cicaleccio generale.
L’informazione cardinale appare in quattro occa-
sioni, nelle quali il brutale cinismo dei personaggi
contribuisce a ridurne l’evidenza.
Prima occasione (mentre le donne escono di chiesa):
Baron (guardando fuori): Ch’el guarda on poo la
contessa Ormini colla tosa!
Taccani: Per bacco! l’è la prima volta che la se fa
vedè in publich, la sura Contessina (Ride ironico).
Baron: Oh Dio! cose vecchie - cose passate...
D E S T I N
B A L O S S !
C A R L O
Mainetti (a Taccani): A ditt la veritaa avaria voruu
trovamm mi in di pagn del dottor Marsieri!
Taccani: Ah sì! On colloquio de dò ôr, al tu per tu...
e poeu minga domà de parer avariss cambiaa, ma
anca el nomm se fuss staa possibil
Mainetti: Adess hin tutti de casa Rivalta... te set
accort?
Taccani: Difatti hin insemma all’avvocat Palmieri...
Mainetti: Quel che ha ciappaa el post del dottor...
Taccani: Precisament
Seconda occasione (parlando del Marchese Riccardo):
Mainetti: Le signore ghe moeuren adree, ma lu i e
capiss no o el fa finta de no capij... fina la contes-
sina Ormini...
Taccani: Ah, quella lì, lìè el fradell ch’el voeur fa-
ghela sposà...
Mainetti: Te set inveci chi l’è che gh’ha fa colp?
Baron (subito con interesse): Chi?
Mainetti: La Belle Helène!
Terza occasione:
Baron (a Ormini): T’hee vist don Ceser?
Ormini: L’ho vist adess ch’el vegneva foeura de San
Carlo con so fradell e mia miee... (Altro tono) A pro-
posit, te set no la gran novitaa? hoo venduu la Baja”.
Quarta occasione:
Baron: Domani... mi progetti una gita a Coraa,
nella mia villa (a Riccardo e Ceser) in onore del
noster car Riccardo... Ti Ormini... s’en parla nanca,
ci farai compagnia con toa miee e con toa tosa.
B E R T O L A Z Z I
A
C E N T O
A N N I
D A L L A
M O R T E
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