FENOMENI
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quella partita erano presenti tantissimi
brasiliani che tra di noi non riuscivamo
a comunicare ed eravamo costretti ad
urlare per parlarci. Vincemmo al tiebreak e andammo in finale dove ci
aspettava Cuba, favorita al titolo e contro
la quale avevamo perso nel girone di
andata. Quello che Velasco ci disse fu
semplicemente di fare quello che sapevamo
fare, ne più ne meno. Scendemmo in
campo con la consapevolezza che ce
l’avremmo fatta: rispetto ai cubani noi
eravamo cresciuti mentalmente, senza
dimenticarci che loro avevamo una forza
fisica non indifferente. Sinceramente la
cosa che ricorderò sempre, perché per me
è l’immagine simbolo di quel mondiale,
è il mani fuori di Lorenzo Bernardo che
per noi significò “Campioni del mondo”.
Provai subito un senso di gioia a cui
subentrò un senso di svuotamento perché
tutto era finito».
Quel mondiale vinto dagli azzurri
di Velasco fece innamorare di questo
sport tantissimi italiani che iniziarono
così a riempire i palazzetti italiani.
Interesse del pubblico, dei media e dei
giornali avrebbe potuto creare pressioni
addosso a questi ragazzi, quasi come
una responsabilità e un senso di dovere
nei confronti della gente. «È normale
che ci sia una responsabilità nei confronti
delle persone che vengono a vedere la
partite: bisogna imparare a gestirla e a
conviverci».
Marco parla a ruota libera, con il
suo immancabile accento toscano. Io
sono ancora rapita da tutte le medaglie
che vedo sul tavolo: sono tantissime e
mi viene spontaneo chiedergli a quale
si sente più legato, dando per scontato
che la risposta sia quella del mondiale
del 1990, ma rimango spiazzata. «Sono