LA CIVETTA - April 2020 | Page 98

DIPARTIMENTO

DIPARTIMENTO

the fact is that

I’m in love

with words

A: Come ci si relaziona alla soggettività di chi viene intervistato e come si interpreta il suo punto di vista? Quali sono vantaggi e svantaggi?

AP: Innanzitutto c’è il rischio dell’intrusività, un rischio di reificazione dell’intervistato. Come abbiamo accesso a tutto questo? Ne abbiamo accesso attraverso le parole che rendono possibile l’intervista. Ricordo che all’inizio della storia orale si diceva che con essa si ha accesso all’esperienza diretta di qualcuno. No, innanzitutto non si ha accesso all’esperienza diretta, in realtà neanche alla memoria dell’esperienza: si ha accesso a un racconto della memoria dell’esperienza. L’unica cosa che puoi fare è lavorare sulle parole, stando attento a una cosa molto importante: le persone che intervisti ti stanno regalando il loro tempo, le loro conoscenze, magari ti offrono anche caffè e pasticcini, non puoi violarli. Questo credo sia il grande tratto distintivo della storia orale. Non conosco lavori di storia orale che non rispettano chi si ha di fronte. Cosa che invece fanno un sacco di giornalisti. Il giornalismo ha bisogno di una dimensione di spettacolarità, di sensazionalismo, allora spesso il grande intervistatore è quello che fa dire alle persone qualcosa che non avrebbero detto, come se fosse questa la dote di un intervistatore di successo. Bisogna stare attenti alla privacy, una cosa che io e il mio gruppo non facciamo è pubblicare le interviste online perché abbiamo paura di quello che gli altri possono fare con quei dati. La dimensione di non intrusività e di rispetto è fondamentale, ma il tuo compito da intellettuale è anche quello di interpretare, ti muovi quindi sul filo del rasoio.

A: Nel presente invece le cose sono cambiate, i social network possono essere considerati luoghi della memoria?

AP: Direi che il compito dello storico è di usare tutto quello che ha a disposizione. Ma la cosa che mi colpisce è che la comunicazione dei social worker, solo apparentemente è un discorso pubblico, è piuttosto una comunicazione molto solipsistica, si muove nella dimensione dello sfogo, e quella è una cosa che va studiata. Secondo me i social più che una fonte sono un oggetto di studio da cui trarre delle conclusioni. Sicuramente non si può basare un lavoro storiografico su informazioni che vengono dai social a meno che non vengano verificati in tanti modi. Su tendenze su stati d’animo, sicuramente dicono qualcosa.

O: Stavo pensando alla relazione si instaura con l’intervistato. In che misura influisce sull’autenticità di quanto e cosa si risponde? Hai detto che è interessante anche quando le persone omettono, nascondono qualcosa. Ecco, anche da lì possiamo trarre delle informazioni.

AP: A volte penso all’intervista come a un tango: i tuoi passi influenzano i passi di chi hai di fronte. Credo che la relazione di fiducia, o meglio la quantità di fiducia, dipenda dal fatto che comprendano che non stai cercando di essere invadente. Le persone apprezzano il fatto che non gli vengano poste determinate domande, si sentono più sicuri e finiscono per dare ugualmente quelle informazioni, ad aprirsi. Ho fatto un intervista con quest’uomo che stato in Vietnam, ma non mi avrebbe raccontato nulla se ci fosse stata sua madre nei paraggi perché non voleva che sua madre sapesse determinate storie. E lui sapeva che io sapevo, durante l’intervista sua madre era lì, allora gli ho chiesto di parlare di qualcos’altro. Non li stai sfidando. Ci sono particolari che si possono omettere, quando intervistavo le vittime della classe operaia di Terni, dovevo forse rivelare che sapevo che quello di cui parlavano non era avvenuto nel ‘53, ma nel ‘49? No, perché sarebbe stato come sfidarli. Piuttosto gli ho chiesto se ne erano sicuri. Ma la cosa assurda in tutto ciò era che a loro non importava, perché il significato della storia era più importante della data, di un numero.

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