L' Artigianato Febbraio 2016 | Página 23

dall’associazione apprende in classe la cultura “del fare”, dimenticando che i tecnici e i periti sono stati la forza dell’Italia del boom industriale, e molti degli imprenditori che oggi costituiscono la spina dorsale del nostro sistema manifatturiero vengono da lì, dalle scuole tecniche. La gerarchia dei saperi di gentiliana memoria ha impresso una frattura tra cultura letterario-umanistica (ritenuta preferibile, specie in molte regioni d’Italia, soprattutto al Sud) e cultura tecnico-scientifica, che a cento anni di distanza resta ancora forte. La grande fabbrica del posto fisso, l’ente pubblico, ha sempre pescato nella prima fascia, rispetto alla seconda. Solo che ora, con il venir meno dei posti pubblici, il destino di buona parte dei laureati in filosofia e scienze della comunicazione (e di tante altre facoltà) resta l’insegnamento o la disoccupazione. È quindi sul piano culturale, innanzitutto, che occorre lavorare per far capire la dignità e la grandezza dell’istruzione tecnica (e dei lavori a cui abilita), come pure (e questo sta già avvenendo) la grandezza del tornare alla terra, e ai lavori della manualità, con la dovuta e adeguata formazione alle spalle che questi richiedono. Se si guarda al resto d’Europa, però, non vi è soltanto una presunzione letterario-culturale che frena lo sviluppo di istruzione tecnica di qualità nel nostro Paese. Vi è anche la mancanza di istituti adeguati, soprattutto per quanto riguarda l’offerta di percorsi terziari di istruzione tecnica superiore breve (2-3 anni). Esiste di fatto un vuoto tra scuola e università, che non è colmato in alcun modo, con atenei in molti casi ancora dominati da logiche baronali e autoreferenziali, restii a finalizzare l’università ai bisogni formativi effettivi dei giovani, quelli adeguati a far trovar loro un lavoro, o a crearsi un lavoro. Qualche dato per capire. In Germania gli istituti universitari professionalizzanti sono 880mila (cosiddette università di scienze applicate), in Francia gli istituti universitari di tecnologia sono 116.000, in Austria 40mila, in Svezia 31mila. In Italia, invece, vi sono 4mila istituti tecnici superiori e una quasi inesistente offerta formativa di lauree in corsi professionalizzanti di 2 o 3 anni. Facile capire perché il nostro Paese è fanalino di coda in Europa nella ripresa economica, e di come tutta una serie di eccellenze del “made in Italy” siano a rischio per mancanza di diplomati in istruzione tecnica applicata, ponendo un problema di sopravvivenza futura della struttura industriale-produttiva italiana. Su questo punto l’università italiana ha gravi colpe, e anche la politica che ha subito i ricatti e i veti dei baroni accademici (e delle loro manie di corsi e facoltà inutili e desuete), invece di indirizzare con più forza la realizzazione di un’istruzione tecnica superiore. Bisognerà ripensare al più presto una revisione del modello totalmente fallimentare del 3+2, spezzando la rigida tradizione accademica delle università. E la natura dell’ateneo trentino, espressione della Comunità territoriale, dovrebbe favorire con più forza e convinzione lo sviluppo di titoli professionalizzanti brevi. Vedremo gli sviluppi con la Meccatronica. Essenziale è realizzare luoghi come le Fachhochschule di tradizione tedesca, che costituiscano laboratorio di aggiornamento tecnologico, fuori dagli schemi tradizionali della ricerca pura tipici dell’università italiana e connessi invece al mondo delle imprese e della ricerca applicata. Altrimenti si ripeterà quanto avvenuto nell’ultimo quindicennio, con il Trentino che ha investito nella ricerca percentuali altissime di Pil, ma tutto ciò non ha portato a una corrispettiva adeguata ricaduta applicativa, capace di tradursi in innovazione pratica e imprenditoriale. Infine – e qui l’autonomia scolastica del Trentino può essere d’aiuto – va fermata la l