dall’associazione
apprende in classe la cultura “del fare”, dimenticando che i tecnici e i periti sono
stati la forza dell’Italia del boom industriale, e molti degli imprenditori che oggi
costituiscono la spina dorsale del nostro
sistema manifatturiero vengono da lì, dalle scuole tecniche.
La gerarchia dei saperi di gentiliana
memoria ha impresso una frattura tra cultura letterario-umanistica (ritenuta preferibile, specie in molte regioni d’Italia,
soprattutto al Sud) e cultura tecnico-scientifica, che a cento anni di distanza resta
ancora forte. La grande fabbrica del posto
fisso, l’ente pubblico, ha sempre pescato
nella prima fascia, rispetto alla seconda.
Solo che ora, con il venir meno dei posti
pubblici, il destino di buona parte dei laureati in filosofia e scienze della comunicazione (e di tante altre facoltà) resta l’insegnamento o la disoccupazione.
È quindi sul piano culturale, innanzitutto, che occorre lavorare per far capire la
dignità e la grandezza dell’istruzione tecnica (e dei lavori a cui abilita), come pure
(e questo sta già avvenendo) la grandezza
del tornare alla terra, e ai lavori della manualità, con la dovuta e adeguata formazione alle spalle che questi richiedono.
Se si guarda al resto d’Europa, però,
non vi è soltanto una presunzione letterario-culturale che frena lo sviluppo di istruzione tecnica di qualità nel nostro Paese.
Vi è anche la mancanza di istituti adeguati, soprattutto per quanto riguarda l’offerta di percorsi terziari di istruzione tecnica
superiore breve (2-3 anni). Esiste di fatto
un vuoto tra scuola e università, che non è
colmato in alcun modo, con atenei in
molti casi ancora dominati da logiche baronali e autoreferenziali, restii a finalizzare l’università ai bisogni formativi effettivi
dei giovani, quelli adeguati a far trovar
loro un lavoro, o a crearsi un lavoro.
Qualche dato per capire. In Germania
gli istituti universitari professionalizzanti
sono 880mila (cosiddette università di
scienze applicate), in Francia gli istituti
universitari di tecnologia sono 116.000, in
Austria 40mila, in Svezia 31mila. In Italia,
invece, vi sono 4mila istituti tecnici superiori e una quasi inesistente offerta formativa di lauree in corsi professionalizzanti
di 2 o 3 anni. Facile capire perché il nostro
Paese è fanalino di coda in Europa nella
ripresa economica, e di come tutta una serie di eccellenze del “made in Italy” siano a
rischio per mancanza di diplomati in
istruzione tecnica applicata, ponendo un
problema di sopravvivenza futura della
struttura industriale-produttiva italiana.
Su questo punto l’università italiana ha
gravi colpe, e anche la politica che ha subito i ricatti e i veti dei baroni accademici (e
delle loro manie di corsi e facoltà inutili e
desuete), invece di indirizzare con più forza la realizzazione di un’istruzione tecnica
superiore. Bisognerà ripensare al più presto una revisione del modello totalmente
fallimentare del 3+2, spezzando la rigida
tradizione accademica delle università. E
la natura dell’ateneo trentino, espressione
della Comunità territoriale, dovrebbe favorire con più forza e convinzione lo sviluppo di titoli professionalizzanti brevi.
Vedremo gli sviluppi con la Meccatronica. Essenziale è realizzare luoghi come le
Fachhochschule di tradizione tedesca,
che costituiscano laboratorio di aggiornamento tecnologico, fuori dagli schemi tradizionali della ricerca pura tipici dell’università italiana e connessi invece al mondo
delle imprese e della ricerca applicata.
Altrimenti si ripeterà quanto avvenuto
nell’ultimo quindicennio, con il Trentino
che ha investito nella ricerca percentuali
altissime di Pil, ma tutto ciò non ha portato a una corrispettiva adeguata ricaduta
applicativa, capace di tradursi in innovazione pratica e imprenditoriale.
Infine – e qui l’autonomia scolastica
del Trentino può essere d’aiuto – va fermata la l