Fare Diversamente! Mi racconti di quando... a Rho | Page 55

Di fianco all’autista Imerio indicava la strada, i tre fratelli e due sorelle erano sul retro del camioncino, stipati con le masserizie, i letti, un tavolo, qualche sedia e la misera credenza che profumava ancora di tabacco, sigarette avute in cambio per il lavoro svolto nella piantagione di tabacco. Erano come in una scena del film “Furore” (con Henry Fonda) coloni del West che andavano da un posto all’altro in cerca di una casa, ma per fortuna loro una casa in periferia di Rho l’avevano. All’arrivo erano stravolti dal viaggio e malinconici nel vedere quel posto così diverso dalla cascina di Serrubino, che perfino qualche lacrima scese dal viso di Gino. Non c’erano una grande aia, stalle e fienile e un grande portico fuori di casa, dove al riparo dal sole e dalla pioggia era piacevole radunarsi con amici dalle cascine vicine. Neppure il torrente con i pesci, che si avventuravano nel guado, fino a toccare il muso delle bestie mentre si abbeveravano, e non si vedeva acqua sorgente che in una vasca di pietra sgorgava sempre limpida.

Su per una ripida scala di cemento, c’erano tanti piccoli appartamenti di ringhiera che davano su un grande cortile, formati da un locale di media grandezza diviso da una paratia di legno, piccole finestre e l’uscio che dava direttamente sulla ringhiera. Da una parte avevano sistemato la stufa, il tavolo e la credenza, dall’altra i letti e un pagliericcio sul pavimento per Gino. Per riempire il secchio d’acqua si doveva mandare avanti e indietro la manovella della pompa che stava nel mezzo del cortile.

All’inizio delle scale, poco più di un metro per un metro, in un buco nel pavimento c’era uno stanzino maleodorante, che era utilizzato da tutti gli abitanti del cortile come latrina. Così da quel giorno ebbe inizio la nuova vita a Rho di mio nonno e dei suoi tre fratelli e due sorelle.

A Serrubino aveva tanto spazio e si sentiva libero, aveva fame e poco da mangiare, invece a Rho aveva poco spazio e regole del posto a cui sottostare, però c’era lavoro, e con il lavoro sarebbe arrivato anche il pane. Anche se lo spostamento era stato solo di un centinaio di chilometri, per la gente del posto erano degli emigrati. Difficile abituarsi a usi e costumi diversi, difficile fare amicizia con persone diffidenti che li tenevano a distanza come se fossero degli straccioni, solo la famiglia Berta li teneva in considerazione. Poi con tanta volontà e lavoro dei fratelli maggiori e la costanza delle sorelle che ogni mattina si mettevano in fila davanti alla filanda Mugiani finché furono assunte, la condizione di vita presto migliorò. I primi soldi risparmiati servirono per pagare tutti i debiti, compreso la cambiale di zia Stella, poi una casa un po’ più grande e qualcosa da mettersi addosso. A quasi tredici anni per Gino fu la prima volta che ebbe i pantaloni lunghi, e a Pasqua, calzini e scarpe nuove.

Erano i primi giorni di primavera, e Gino cercava di inserirsi nelle abitudini di quel cortile. Di mattino presto, al bagliore della prima luce, fra le sbarrette della ringhiera osservava il lento svegliarsi della vita.

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