Così ti immergi in Jodorow-
sky e capisci che è tempo
del tuo atto teatrale. Tu che
dall’età di sei anni hai trova-
to nella danza la tua unica
forma espressiva, il guscio
in cui nasconderti, l’impen-
sabile equilibrio tra rigore e
liberazione; tu che l’hai in-
dossata, trasmessa, raccon-
tata, ma che non hai mai
avuto il coraggio di perdere
il controllo, mostrare chi sei,
usare la tua voce, che sedici
anni fa hai appeso le scar-
pette perché o la perfezione
o niente, eccola lì la vita che
ti ghigna addosso, ma ti dà
anche un’incredibile oppor-
tunità di crescita.
Così mi presento a Ravenna,
e mentre il prestigioso festi-
val premia Micha van Hoec-
ke per i suoi 27 anni di colla-
borazione, io lo attendo con
un calice di vino e un foglio
protocollo di domande, giu-
sto per capire se quello che
ho sempre visto, sentito, let-
to e percepito su di lui siano
voli pindarici o visioni strego-
niche. Tra Apollo e Dioniso
vince il secondo, il maestro si
commuove per avergli sbir-
ciato nell’anima, eppure io
ho l’impressione di essermi
fatta una fattura, e ci amma-
liamo entrambi.
Ma la macchina teatrale è
stata avviata, e ritma impas-
sibile verso il gran ballo fina-
le. Così chiedo una clessidra,
aggrappandomi a una qual-
che forma di controllo, ma
scomparirà dopo la prima
scena; provo a travestirmi,
da zingara ovviamente, ma
a metà spettacolo sono già
in abito lungo, tacchi, micro-
fono e inutile cartellina; oso
a questo punto fare la rigo-
rosa giornalista, e mi ritrovo
a improvvisare danze perdu-
te sulle note di Tchaikovsky;
studio le domande, le rag-
gruppo, comprimo, taglio,
semplifico, ma Micha non le
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