Dance&Culture N°1-2-3/2017 D&C16-1-2-3-2017 | Page 7

D Deve essere stato un vero enfant terri- ble, Emanuel Gat, da bim- bo. Lo imma- gino vivace e turbolento, con una irre- frenabile vi- talità che lo ha tramutato nella vita e sulla scena in un artista spregiu- dicato, irriverente, sfrontato…e anche molto ironico, come poi scoprirò dalle sue risposte alle mie domande. Dotato di raro talento sia nella danza che nella coreografia, definisce due modi per creare una coreografia: inventarla o scoprirla. E’ la differenza che può esserci tra realizzare pit- toricamente una propria visio- ne o scolpire via il materiale in più liberando una forma imma- nente ad un blocco marmoreo. Come afferma lui stesso, ciò che Gat preferisce è “creare l’environment perché la co- reografia si realizzi e questo è il modo più efficiente di porsi delle domande, di compren- sione, a volte di ricevere rispo- ste a volte no, ma quello che mi interessa è essere capace di guardare con questo mec- canismo nel mondo, nella mia vita, in ciò che mi interessa”. Un movimento, un disegno, una coreografia che parta dall’interno dell’essere umano e vada a riflettersi all’esterno dove ognuno in base alla pro- pria esperienza personale po- trà riconoscerne il significato. L’essere umano pare sia la sua ricerca d’eccellenza. Questo raccontare per immagini in movimento cosa le ha svelato dell’essere umano? E quanto ha appreso le è tornato utile nella sua vita di relazione? Si, il mio lavoro si focalizza sulle persone e sulla loro interazio- ne. E in questo senso anche la risposta alla seconda doman- da è SI. La coreografia è un meraviglioso modo per studia- re, osservare e analizzare tutto questo. Può fornire un senso di grande chiarezza su determi- nati meccanismi umani ed è sempre affascinante poter fare parallelismi tra ciò che accade in studio e la vita al di fuori. Sia per Montpellier Danse che per Vignale Monferrato Fe- stival lei ha creato per luoghi specifici, al di là di quello che può oggi essere diventata una corrente artistica o una moda, creare movimenti inusuali per palcoscenici rubati alle più di- verse architetture cittadine è per lei di maggiore ispirazione, come per esempio il dover af- frontare e superare barriere ar- chitettoniche, o è una sfida da vincere, cosa che non le offre la scatola vuota del palcosce- nico teatrale in cui tutto deve essere creato dal nulla? Ha molto più a che fare con la mia ricerca su sistemi coreo- grafici dal vivo. In questi anni sono stato molto trasportato dall’idea e dalla pratica che il vedere una coreografia ha pri- ma di tutto e in particolar modo più a che fare con il tempo re- ale, di conseguenza non è ne- cessariamente qualcosa che ha bisogno di essere pre-orga- nizzata e controllata ma piutto- sto qualcosa in diretta connes- sione con il tempo attuale nel quale è creata. Passare dallo spazio teatrale all’ambiente reale è un modo per studiare ulteriormente questo aspetto della coreografia. Il suo lavoro con la danza ten- de a cercare un linguaggio personale o tende a cambia- re a seconda della narrazione che vuole raccontare? No, per nulla. Non sono assolu- tamente interessato a provare a creare un linguaggio rico- noscibile. In realtà mi piace vedere il mio lavoro cambiare e sorprendermi con cose che non mi aspetto. Ad ogni modo, sento che essendo me stes- so, ci sarà sempre una linea che collega ogni mio lavoro, e questo è sufficiente. Il suo approccio personale a chi ha di fronte è più visivo o fisico? 7