D
Deve essere
stato un vero
enfant terri-
ble, Emanuel
Gat, da bim-
bo. Lo imma-
gino vivace
e turbolento,
con una irre-
frenabile vi-
talità che lo
ha tramutato
nella vita e
sulla scena in un artista spregiu-
dicato, irriverente, sfrontato…e
anche molto ironico, come poi
scoprirò dalle sue risposte alle
mie domande.
Dotato di raro talento sia nella
danza che nella coreografia,
definisce due modi per creare
una coreografia: inventarla o
scoprirla. E’ la differenza che
può esserci tra realizzare pit-
toricamente una propria visio-
ne o scolpire via il materiale in
più liberando una forma imma-
nente ad un blocco marmoreo.
Come afferma lui stesso, ciò
che Gat preferisce è “creare
l’environment perché la co-
reografia si realizzi e questo è
il modo più efficiente di porsi
delle domande, di compren-
sione, a volte di ricevere rispo-
ste a volte no, ma quello che
mi interessa è essere capace
di guardare con questo mec-
canismo nel mondo, nella mia
vita, in ciò che mi interessa”.
Un movimento, un disegno,
una coreografia che parta
dall’interno dell’essere umano
e vada a riflettersi all’esterno
dove ognuno in base alla pro-
pria esperienza personale po-
trà riconoscerne il significato.
L’essere umano pare sia la sua
ricerca d’eccellenza. Questo
raccontare per immagini in
movimento cosa le ha svelato
dell’essere umano? E quanto
ha appreso le è tornato utile
nella sua vita di relazione?
Si, il mio lavoro si focalizza sulle
persone e sulla loro interazio-
ne. E in questo senso anche la
risposta alla seconda doman-
da è SI. La coreografia è un
meraviglioso modo per studia-
re, osservare e analizzare tutto
questo. Può fornire un senso di
grande chiarezza su determi-
nati meccanismi umani ed è
sempre affascinante poter fare
parallelismi tra ciò che accade
in studio e la vita al di fuori.
Sia per Montpellier Danse che
per Vignale Monferrato Fe-
stival lei ha creato per luoghi
specifici, al di là di quello che
può oggi essere diventata una
corrente artistica o una moda,
creare movimenti inusuali per
palcoscenici rubati alle più di-
verse architetture cittadine è
per lei di maggiore ispirazione,
come per esempio il dover af-
frontare e superare barriere ar-
chitettoniche, o è una sfida da
vincere, cosa che non le offre
la scatola vuota del palcosce-
nico teatrale in cui tutto deve
essere creato dal nulla?
Ha molto più a che fare con la
mia ricerca su sistemi coreo-
grafici dal vivo. In questi anni
sono stato molto trasportato
dall’idea e dalla pratica che il
vedere una coreografia ha pri-
ma di tutto e in particolar modo
più a che fare con il tempo re-
ale, di conseguenza non è ne-
cessariamente qualcosa che
ha bisogno di essere pre-orga-
nizzata e controllata ma piutto-
sto qualcosa in diretta connes-
sione con il tempo attuale nel
quale è creata. Passare dallo
spazio teatrale all’ambiente
reale è un modo per studiare
ulteriormente questo aspetto
della coreografia.
Il suo lavoro con la danza ten-
de a cercare un linguaggio
personale o tende a cambia-
re a seconda della narrazione
che vuole raccontare?
No, per nulla. Non sono assolu-
tamente interessato a provare
a creare un linguaggio rico-
noscibile. In realtà mi piace
vedere il mio lavoro cambiare
e sorprendermi con cose che
non mi aspetto. Ad ogni modo,
sento che essendo me stes-
so, ci sarà sempre una linea
che collega ogni mio lavoro, e
questo è sufficiente.
Il suo approccio personale a
chi ha di fronte è più visivo o
fisico?
7