DIGITAL UTILITY
che deve prendere forma, strutturarsi in
maniera più chiara ed essere in grado di
produrre un modello al quale – seppur
non in maniera stringente – richiamarsi.
Certamente non è più il tempo delle iniziative
di singole realtà locali, come amministrazioni
pubbliche o utility che, pur volonterose e
illuminate, non sono più sufficienti.
Per le utility la smart city dovrebbe essere il
primo segmento di un disegno complessivo
che comprende certamente i servizi smart
dedicati alla cittadinanza, ma anche un
livello superiore che riguarda direttamente
la gestione della realtà urbana. La chiave
di volta di questa trasformazione sta nella
capacità di interpretare e analizzare le
enormi quantità di dati – big, appunto –
che provengono dagli “oggetti” (lampioni,
semafori, contatori e altri) disseminati per
la città. Quindi governare i dati per avere
informazioni precise e utili per governare
meglio la città, per aiutare i decisori politici
a scegliere strategicamente, supportati non
solo da riflessioni e previsioni ma da numeri
e cifre in grado di disegnare fenomeni e
realtà già esistenti.
A partire dal piccolo. Un esempio proveniente
da Milano e promosso da A2A Smart City,
società della multiutility lombarda dedicata
ai servizi per la città intelligente. Apporre
dei sensori sui cestini dell’immondizia che
inviano segnali quando sono pieni è senz’altro
molto utile per ottimizzare la raccolta da
parte degli operatori che non perderanno
tempo e risorse nel recarsi presso quei
punti dove non serve il loro intervento. Ma
non solo. Analizzare i dati inviati dai cestini
durante un determinato lasso di tempo
può servire anche a meglio distribuire la
loro collocazione, magari segnalando la
necessità di un terzo in una piazza dove
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ve ne sono solo due (specialmente se quei
due sono sempre pieni). Insomma, non
solo migliorata operatività per gli addetti e
un servizio più puntuale per i cittadini, ma
anche possibilità di prendere decisioni che
abbiano un impatto più generale, a un livello
più alto, “strategico”.
Tuttavia, per arrivare a un cruscotto di
comando così articolato è necessario
stabilire come sarà la cornice progettuale
dentro la quale tutte queste cose devono
avvenire.
Il concetto di smart city è sufficiente? E
soprattutto è applicabile a buona parte del
nostro Paese? La questione è oltremodo
delicata perché, se non affrontata in maniera
chiara, potrebbe generare conseguenza
negative.
Il tema è duplice. Da una parte non
bisogna dimenticare il quadro demografico
nazionale, con la presenza e la prevalenza
di realtà di piccole dimensioni: il 70% dei
comuni italiani ha, infatti, una popolazione
pari o inferiore ai 5 mila abitanti, mentre
sono solo 12 le città con più di 250mila
abitanti. Dall’altra non si deve correre il
rischio di creare soggetti definibili come di
“serie A” e altri di serie inferiori, con le città
più grandi pronte a intercettare l’interesse
e i finanziamenti a scapito delle piccole.
Uno scenario da evitare perché, al di là
delle dimensioni, le seconde garantiscono
la stessa qualità della vita e le stesse
opportunità per le imprese, delle prime.
Meglio allora introdurre anche il concetto di
smart land e ragionare in senso territoriale
oltre che urbano. Il pericolo è che si ricada
nello scenario di digital divide degli anni
Novanta, con gli abitanti di un’importante
porzione del Paese a dover sopportare e
subire il peso di questa esclusione.