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CITY LIFE MAGAZINE
Rebus sic stantibus, il luogo maggiormente
deputato a ospitare gli impianti è
naturalmente il Sahara, il deserto più grande
del mondo con i suoi 10 milioni di kmq,
a cui si aggiunge anche l’altro elemento
estremamente vantaggioso offerto dalla
vicinanza a uno dei più importanti mercati
mondiali dell’energia, quello europeo.
In linea di massima, l’intuizione del
Desertec è valida ed estendibile in tutto il
mondo, qualora si presentino le condizioni
ambientali minime per progetti impiantistici
di così grande potenza.
Inoltre, la creazione di siti “preindustrializzati” volti alla generazione
elettrica comporta, a cascata, tutta
una serie di secondari effetti benefici,
quali l’ottimizzazione degli spazi per
altri insediamenti industriali – vantaggio
usufruibile indirettamente su scala
planetaria – abbondanza di energia
per i desalinizzatori (con successivi
impieghi idrici per l’agricoltura e le città),
l’accelerazione dello sviluppo urbano nelle
aree connotate da comunità isolate.
Inizialmente, il Desertec venne sviluppato
dalla Trans-Mediterranean Renewable
Energy Cooperation (TREC) – una
organizzazione volontaria fondata nel 2003
dal Club di Roma e dal National Energy
Research Center Jordan, con esperti
provenienti da Medio Oriente e Nord Africa.
Nel 2009, la Fondazione no-profit Desertec
ha fondato l’iniziativa industriale con sede
a Monaco di Baviera “Dii Gmbh” insieme
a un ampio gruppo di stakeholder e a
partner dal mondo industriale e finanziario,
al fine di favorire lo sviluppo di un’industria
dell’energia delle rinnovabili nella regione
Europa, Medio Oriente e Nord Africa (EUMENA).
L’idea alla base del programma, suffragato
anche dagli studi dell’Agenzia Spaziale
Tedesca è che il sole del deserto potrebbe
far fronte alla crescente domanda di
energia della regione MENA (a più alta
crescita demografica), aiutando nel
contempo a fornire energia all’Europa e
riducendo le emissioni di ossidi di carbonio
in tutta l’area. Più ancora, il Dii GmbH ha
pubblicato nel giugno 2012 un’ulteriore
studio chiamato “Desert Power 20” da cui
emerge che la regione del Medio Oriente
e del Nord Africa sarebbero in grado di
esportare la propria sovrapproduzione
dando vita a un mercato dell’energia
“verde” ed annessa industria impiantistica
per un giro di affari superiore ai 60 miliardi
di euro. Nel contempo, importando
“energia del deserto”, l’Europa potrebbe
risparmiare intorno a euro 30/MWh,
cifra vicino alla metà del valore medio
all’ingrosso dell’energia nel proprio mercato
continentale, riuscendo nel contempo
a importare fino al 20% del proprio
fabbisogno energetico.
Facile comprendere come il progetto
abbia acceso ampi entusiasmi: è stato
considerato una delle più belle “idee verdi”
degli ultimi anni e sembrava che potesse
risolvere uno dopo l’altro mediante una
semplice dislocazione di impianti, una
pluralità di problemi energetici, economici,
politici. E così, allettati dal sogno delle
“magnifiche sorti progressive” sono stati
numerosissimi i grandi gruppi, specie
europei, che si sono buttati nel progetto:
Siemens, Deutsche Bank, Enel - Endesa,
Vestas ecc.
Se queste erano le promesse, certamente
allettanti, a cinque anni dopo il suo lancio,
il Desertec ha ottenuto risultati scarsi se
non addirittura deludenti. Per alcuni aspetti,
il progetto rappresenta un esempio da
manuale sul declino e il fallimento di un
programma industriale. Le preoccupanti
incongruenze di cui è afflitto il Desertec son
di due ordini: l’una di approccio teorico, ed
è il gigantismo; l’altra è di tipo operativo ed
è la politica.
In ordine al primo punto, si è proceduto
forse in modo troppo spavaldo, pensando
di gestire agevolmente l’installazione e
il funzionamento di numerosi impianti di
potenza collocati a centinaia di chilometri di