IL RAPPORTO PADRE-FIGLIO
Nei primi anni di vita, il bambino porta avanti il suo continuo lavoro di
adattamento al mondo esterno prevalentemente attraverso il padre, sia
nell’imitarlo, sia nell’accettarne o meno le imposizioni.
Educare significa adattare pian piano la personalità del bambino al mondo
adulto, contribuire a creare un nuovo equilibrio nel quale il figlio deve
saper rinunciare a certe cose per ottenerne altre, subire frustrazioni e
superarle, introiettando così il principio della realtà esterna.
Nel periodo che va dallo svezzamento ai sette-nove anni, il padre riveste
un’importanza fondamentale. Quando tale rapporto è vissuto pienamente,
il figlio ha la possibilità di sopportare senza gravi traumi la rottura della
simbiosi con la madre, accettando completamente il mondo esterno.
Al settimo-ottavo mese subentra la crisi di angoscia, quando il neonato
impara a vedere la madre come separata da sé. Proprio in questa fase,
comincia a riconoscere una terza figura dominante: il PADRE. Tra gli
otto e i dodici mesi la triade familiare appare agli occhi del bambino in
tutta la sua chiarezza.
Da qui inizia a delinearsi a poco a poco la funzione del padre, che interviene direttamente nella fase in cui il bambino si appresta a scoprire il mondo
e, compiendo lo sforzo di adattamento, si pone in posizione difensiva e
diffida di tutto (non a caso il bambino impara prima a dire “no” e poi “si”).
Il padre, dunque, si interpone tra la sua paura e il mondo esterno, diventando simbolo di sicurezza, nume tutelare, l’essere forte e amato che lo
protegge. Di fronte a qualsiasi frustrazione subita da estranei, grandi e
piccoli, il bambino esclama: “lo dirò a mio padre!”. E’ evidente quindi
la necessità che il padre dia sicurezza in tutti i sensi e non solo in quello
materiale, pur di primaria importanza.
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Verso gli otto-nove anni, poi, il padre
stabilisce per il figlio il bene e il male,
cioè i criteri di valutazione che corrispondono al significato di obbedienza
e disobbedienza nei suoi confronti.
Tutti noi ricordiamo come il nostro
primo codice morale si sia formato
sull’esempio dei genitori, ma soprattutto del padre.
In sostanza, l’insegnamento morale
non è mai frutto di sermoni, bensì
dell’esempio concreto. Il figlio, identificandosi con il padre, si impadronisce del suo codice normativo; poi, man
mano che cresce, comincia a distaccarsi
da un legame così stretto e diretto con
le norme parentali, per acquisire un
proprio codice morale, al cui centro,
tuttavia, continuerà sempre a trovarsi
l’esempio paterno. Sarà cioè il continuo contatto con il mondo esterno a
mutare in bene o in male tale codice
normativo, e spesso il ragazzo dovrà
superare molte e dure lotte con se stesso per modificare le norme errate trasmesse da in padre autoritario, troppo
punitivo, rigido, ormai non più sostituibile con un padre giusto, autorevole e
amico. Chiaramente, il processo sarà
ancora più difficile nel caso si debbano
sostituire le norme di un padre immorale o addirittura delinquente con norme
corrette e socialmente “buone”.
Il vecchio adagio secondo cui la madre insegna ad amare e il padre a
vivere,trova qui senz’altro una conferma: il bambino, testimone del grande
e complesso dialogo che si svolge tra il
padre, la madre e la vita, impara la legge
del vivere sociale.
E’ quasi inutile sottolineare quanto gravi possono essere per il figlio le difficoltà
di adattamento causate da un’eventuale
assenza della figura paterna, o da una
sua presenza negativa.
L’assenza del padre, anche se determinata da morte, prigionia, divorzio
ecc., può da un lato provocare un
forte senso di insicurezza, e dall’altro
interrompere quel processo di identificazione che, come abbiamo detto, si
rivela fondamentale per la formazione
del codice morale. In questo senso,però,
non è pericolosa soltanto l’assenza reale
del padre, ma anche quella spiritualepsicologica……