che decretare l’equivalenza dei sistemi di valori per mezzo dei quali ciascuna cultura assolve al suo compito.
Se tutte le culture si equivalgono e
richiedono per questo un assoluto
rispetto, è evidente che l’incrocio
delle culture e l’acculturazione che
ne deriva costituiscono un attentato
alla loro integrità. Come capirete, in
nome di questo “diritto alla differenza”, io devo chiudere gli occhi davanti a tutto ciò che lo straniero mi
propina, perché è da rispettare nella sua diversità. È qui che io grido:
NO! Si sa che la storia non si misura
con il metro di un progresso né continuo né globale: essa contiene linee
autonome di evoluzione e periodi di
regressione; questo tuttavia non significa che manchi di orientamento
e che non sveli progressivamente le
aspirazioni fondamentali dell’uomo,
al di là delle contingenze sociali e
culturali. I valori culturali particolari indubbiamente debbono essere
rispettati, ma non quando vanno a
cozzare contro i valori riconosciuti
dalla quasi totalità degli Stati del
mondo come rispondenti alle aspirazioni fondamentali dell’uomo e che
sono diritti universali.
Negando la necessità dell’universale
come orizzonte di tutte le relazioni
interculturali equilibrate il «dogma
del relativismo culturale» ha mitizzato un diritto alla differenza che va
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a ritorcersi proprio contro coloro a
beneficio dei quali era stato proclamato. Un diritto alla differenza che
significa diritto alla chiusura, diritto
alla repressione e, al limite, come accade in alcuni Paesi, diritto alla morte. Se è vero che vi sono tante etiche
quante sono le culture e che ciascuna
possiede una propria razionalità, che
dall’esterno non può essere giudicata,
bisogna ammettere che il diritto alla
differenza legittima l’oppressione che
una società, in nome della sua cultura, esercita sui suoi stessi membri, in
attesa forse di esercitarla sugli altri.
E, ancora una volta, io grido: NO!
Pascal Brucaner in Le Sanglot de
l’homme blanc, mette in risalto cosa
può accadere in virtù del rispetto
assoluto della diversità culturale: «si
trovano le parole più persuasive per
spiegare il cannibalismo di una tribù,
la lapidazione della donna adultera,
il taglio delle mani del ladro in certi
paesi islamici o la mutilazione sessuale delle giovanette in Africa e nel
Medio Oriente, la segregazione e il
massacro degli intoccabili in India.
L’argomento allora è questo: ciascuno ha una sua verità». Attenzione, il
riconoscimento delle differenze può
essere l’alibi intellettuale di tutte le
politiche di apartheid. «Che gli altri restino ciò che sono e noi quel
che siamo», è questo il senso. Alain
Finkielkraut in La défaite de la pen-
seé dice che ci sono, anche in certi
ambienti religiosi o di volontariato,
coloro che dicono: «Aiutare gli immigrati significa principalmente rispettarli così come sono e vogliono
essere nella loro identità nazionale,
la loro specificità culturale, le loro
radici spirituali e religiose». Io non
pos